martedì 26 marzo 2013

Sentenze nelle cause C-473/10, C-483/10, C-555/10 e C-556/10 - L'Ungheria e la Spagna sono venute meno agli obblighi derivanti dal diritto dell'Unione nel settore del trasporto ferroviario

Sentenze nelle cause C-473/10, C-483/10, C-555/10 e C-556/10

Commissione / Ungheria, Spagna, Austria e Germania

L'Ungheria e la Spagna sono venute meno agli obblighi derivanti dal diritto dell'Unione nel settore del trasporto ferroviario

La normativa austriaca e la normativa tedesca sono invece conformi al diritto dell'Unione

In seguito alla liberalizzazione del settore ferroviario nell'Unione europea, gli Stati membri sono tenuti a garantire alle imprese di tale settore un accesso equo e non discriminatorio alla rete ferroviaria. L'esercizio di funzioni considerate essenziali non può più essere assicurato dalle imprese ferroviarie storiche degli Stati membri, ma deve essere affidato a gestori indipendenti. Tali funzioni comprendono, in sostanza, il rilascio di licenze alle imprese ferroviarie che conferiscono l'accesso alla rete ferroviaria, l'assegnazione delle linee ferroviarie e la determinazione dei diritti che devono essere versati dalle imprese di trasporto per l'utilizzo dell'infrastruttura.

Le presenti cause si inseriscono in una serie di ricorsi per inadempimento

1 proposti dalla Commissione nei confronti di vari Stati membri per l'inosservanza degli obblighi derivanti dalle direttive sul funzionamento del settore ferroviario2. La Corte di giustizia esaminare in queste cause i ricorsi diretti contro l'Ungheria, la Spagna, l'Austria e la Germania.

C-473/10 Commissione/Ungheria

Nell'ambito dell'assegnazione delle linee ferroviarie, la Commissione addebita all'Ungheria di aver affidato la gestione del traffico alle due imprese ferroviarie storiche (MÁV e GySEV) e non ad un organismo indipendente.

Nella sua sentenza odierna, la Corte constata che la funzione essenziale dell'assegnazione delle linee ferroviarie comprende attività di natura amministrativa riguardanti sostanzialmente la programmazione, la determinazione dell'orario di servizio e l'assegnazione di singole linee ferroviarie ad hoc. Invece, la gestione del traffico comprende attività che rientrano nella gestione dell'infrastruttura e consiste non già nell'adozione di decisioni relative all'assegnazione di linee ferroviarie, ma nell'attuazione o nell'esecuzione di tali decisioni. Di conseguenza,

la gestione del traffico non può essere considerata come una funzione essenziale e può quindi essere affidata, come avviene in Ungheria, a imprese ferroviarie. Parimenti, mentre la determinazione del diritto che deve essere versato dalle imprese di trasporto per l'utilizzo della rete costituisce una funzione essenziale, la semplice riscossione del diritto e la sua fatturazione possono essere affidate agli operatori storici.

La Corte rileva invece che l'Ungheria è venuta meno agli obblighi ad essa derivanti dalla direttiva 2001/14 in quanto non ha definito le condizioni che garantiscono l'equilibrio finanziario dei gestori dell'infrastruttura, né ha adottato gli incentivi per ridurre i costi e i diritti legati all'esercizio e

all'utilizzo dell'infrastruttura. Parimenti, la Corte conclude che l'Ungheria ha violato la direttiva, non avendo garantito che i diritti riscossi dai gestori dell'infrastruttura siano pari ai costi direttamente legati alla prestazione del servizio ferroviario.

C-483/10 Commissione/Spagna

La Corte ricorda innanzitutto che sebbene gli Stati membri siano competenti ad istituire un quadro normativo per l'imposizione dei diritti, essi devono tuttavia rispettare l'indipendenza di gestione del gestore dell'infrastruttura e affidare al medesimo il compito di determinare i diritti dovuti per l'utilizzo della rete ferroviaria. A tal proposito, la Corte dichiara che riservando allo Stato il diritto di determinare questi diritti, la Spagna non si è conformata alla direttiva 2001/14.

La Corte sottolinea poi che gli Stati membri sono tenuti ad includere nel sistema di imposizione dei diritti di utilizzo dell'infrastruttura un sistema di miglioramento delle prestazioni, che consenta di ridurre al minimo le perturbazioni e di migliorare le prestazioni della rete ferroviaria. Ora, anche se la normativa spagnola prevede la possibilità di tener conto di considerazioni relative al miglioramento delle prestazioni della rete e allo sviluppo della medesima, essa non basta tuttavia a istituire effettivamente un sistema che permetta il miglioramento delle prestazioni.

La Corte afferma anche che la normativa spagnola, che conferisce agli enti pubblici, in caso di accavallamento delle domande di un medesimo segmento orario o di saturazione della rete, il diritto di fissare priorità di ripartizione in relazione ai diversi tipi di servizi su ciascuna linea, tenendo conto, in particolare, dei servizi di trasporto merci, è contraria alla direttiva 2001/14. Questa prevede infatti espressamente che devono stabilire regole specifiche di ripartizione di capacità gli Stati membri stessi e che solo il gestore dell'infrastruttura può, in taluni casi, accordare la priorità a determinati servizi.

Infine, la Corte constata che la normativa spagnola, adottando il criterio dell'utilizzazione effettiva della rete come criterio di ripartizione delle capacità dell'infrastruttura in caso di accavallamento delle domande di un medesimo segmento orario o di saturazione della la rete, è contraria alla direttiva 2001/14, in quanto la considerazione dell'utilizzazione effettiva della rete non è subordinata alla conclusione di un accordo quadro. Infatti, in virtù della direttiva 2001/14, la durata massima di utilizzo delle linee ferroviarie non può superare la vigenza di un orario di servizio, a meno che non sia stato concluso un accordo quadro tra il gestore dell'infrastruttura e l'impresa ferroviaria, conformemente alla direttiva. Inoltre, la Corte afferma che un tale criterio di ripartizione è discriminatorio poiché porta a mantenere i vantaggi per gli utenti abituali e al blocco dell'accesso alle fasce orarie più attraenti per i nuovi entranti.

C-555/10 Commissione/Austria e C-556/10 Commissione/Germania

La Corte respinge integralmente i ricorsi proposti dalla Commissione nei confronti dell'Austria e della Germania

La Commissione ha fatto valere che le direttive non consentivano agli Stati membri di integrare il gestore indipendente nel quadro di una holding che deteneva anche imprese ferroviarie, a meno che non fossero previste misure supplementari per garantire l'indipendenza della gestione. Ora, a parere della Commissione, l'Austria e la Germania, nell'integrare in una holding i loro gestori di infrastruttura (rispettivamente ÖBB-Infrastruktur e Deutsche Bahn Netz), non hanno adottato tali misure.

La Corte respinge tale censura. Essa ricorda che, per poter assumere le funzioni di imposizione dei diritti di utilizzo e di ripartizione, l'ÖBB-Infrastruktur e la Deutsche Bahn Netz devono essere indipendenti dalla loro holding rispettiva sul piano giuridico, organizzativo e decisionale. Risulta che tali due società dispongono di una personalità giuridica distinta, di organi nonché di risorse proprie diversi da quelli della loro holding rispettiva. Peraltro, la Corte constata che le misure supplementari fatte valere dalla Commissione non sono menzionate nelle direttive citate, per cui la loro adozione non può essere imposta agli Stati membri.

La Corte respinge anche l'argomento della Commissione secondo cui la Germania sarebbe venuta meno ai suoi obblighi in materia di imposizione dei diritti di utilizzo e di istituzione di un meccanismo diretto a limitare i costi legati al servizio di infrastruttura o il livello dei diritti d'accesso.

1

Si tratta delle cause C-473/10, Commissione/Ungheria; C-483/10, Commissione/Spagna; C-512/10, Commissione/Polonia; C-528/10, Commissione/Grecia; C-545/10, Commissione/Repubblica ceca; C-555/10, Commissione/Austria; C-556/10, Commissione/Germania; C-557/10, Commissione/Portogallo; C-625/10, Commissione/Francia; C-627/10, Commissione/Slovenia; C-369/11, Commissione/Italia; e C-412/11, Commissione/Lussemburgo.

2

Direttiva 91/440/CEE del Consiglio, del 29 luglio 1991, relativa allo sviluppo delle ferrovie comunitarie (GU L 237, pag. 25) come modificata dalla direttiva 2001/12 e la direttiva 2001/14/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2001, relativa alla ripartizione della capacità di infrastruttura ferroviaria e all'imposizione dei diritti per l'utilizzo dell'infrastruttura ferroviaria (GU L 75, pag. 29), come modificata dalle direttive 2004/49/CE e 2007/58/CE.

Sentenza nella causa C-617/10 Åklagaren / Hans Åkerberg Fransson - La Corte precisa l’ambito di applicazione della Carta dei diritti fondamentali ed interpreta il principio del ne bis in idem

Sentenza nella causa C-617/10
Åklagaren / Hans Åkerberg Fransson

La Corte precisa l'ambito di applicazione della Carta dei diritti fondamentali ed interpreta il principio del ne bis in idem
Tale principio non osta a che uno Stato membro infligga, per gli stessi fatti di frode fiscale, una sanzione fiscale e successivamente una sanzione penale, qualora la sanzione fiscale non sia di natura penale
Gli Stati membri e altri 20 Stati europei hanno ratificato la Convenzione europea per la salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà fondamentali (CEDU). Il rispetto degli obblighi risultanti da tale Convenzione è garantito dalla Corte europea dei Diritti dell'Uomo (CEDU), la cui sede è a Strasburgo.
Parallelamente, l'Unione si è dotata di una Carta dei diritti fondamentali che, dopo l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona, ha carattere vincolante. Laddove un diritto fondamentale sia riconosciuto tanto dalla Carta quanto dalla CEDU, la Carta dispone che esso ha lo stesso significato e la stessa portata di quelli conferitigli dalla CEDU. Uno dei diritti riconosciuti dalla Carta 1 e dalla CEDU 2 è il diritto fondamentale di non essere giudicato o condannato penalmente due volte per lo stesso reato (principio del ne bis in idem).
È a proposito di tale principio del ne bis in idem che lo Haparanda tingsrätt (tribunale di primo grado di Haparanda, Svezia) si è chiesto se possano essere avviati procedimenti penali per frode fiscale nei confronti di un imputato, una volta che gli sia già stata inflitta una sanzione fiscale per gli stessi fatti di falsa dichiarazione.
La causa riguarda il sig. Hans Åkerberg Fransson, un lavoratore autonomo che si occupa principalmente di pesca e di vendita del pescato. Egli esercita la propria attività nelle acque del fiume Kalix (Svezia), pur vendendo il pescato sia in territorio svedese che finlandese.
L'amministrazione tributaria svedese ha accusato il sig. Åkerberg Fransson di essere venuto meno ai propri obblighi dichiarativi in materia fiscale nel corso degli esercizi 2004 e 2005, circostanza che ha provocato una perdita di gettito fiscale relativo a diverse imposte. Con decisione del 24 maggio 2007, l'amministrazione tributaria svedese ha inflitto al sig. Åkerberg Fransson sanzioni fiscali per gli esercizi 2004 e 2005 3.
Nel 2009 lo Haparanda tingsrätt ha avviato un procedimento penale nei confronti del sig. Åkerberg Fransson. Il pubblico ministero lo accusa di aver commesso un reato di frode fiscale (per gli anni 2004 e 2005) passibile, secondo il diritto svedese, di una pena detentiva non superiore a sei anni. I fatti di falsa dichiarazione all'origine di tale procedimento sono gli stessi che hanno dato luogo alle sanzioni fiscali.
Il tribunale svedese si chiede se l'azione penale avviata nei confronti del sig. Åkerberg Fransson debba essere considerata inammissibile per il fatto che egli è già stato sanzionato per gli stessi fatti. Tale giudice si interroga anche circa la compatibilità con il diritto dell'Unione della prassi giudiziaria svedese che subordina l'obbligo di disapplicare ogni disposizione che sia in contrasto con un diritto fondamentale garantito dalla CEDU e dalla Carta alla condizione che tale contrasto risulti chiaramente dai testi interessati o dalla relativa giurisprudenza.
Nella sua odierna sentenza, la Corte ricorda anzitutto che, ai sensi della Carta, la medesima si applica agli Stati membri esclusivamente nell'attuazione del diritto dell'Unione. In tal senso, la Carta conferma la giurisprudenza della Corte secondo cui i diritti fondamentali garantiti dalla Carta devono essere rispettati quando una normativa nazionale rientra nell'ambito di applicazione del diritto dell'Unione. Non possono quindi esistere casi rientranti nel diritto dell'Unione senza che tali diritti fondamentali trovino applicazione. L'applicabilità del diritto dell'Unione implica quella dei diritti fondamentali garantiti dalla Carta. La Corte precisa che sanzioni fiscali e procedimenti penali per frode fiscale dovuti all'inesattezza delle informazioni fornite in materia di IVA costituiscono un'attuazione di diverse disposizioni del diritto dell'Unione concernenti l'IVA e la protezione degli interessi finanziari dell'Unione 4. Pertanto la Carta - e quindi il principio del ne bis in idem in essa contenuto - sono applicabili alla situazione del sig. Åkerberg Fransson e possono essere interpretati dalla Corte.
Ciò posto, quando un giudice di uno Stato membro sia chiamato a verificare la conformità ai diritti fondamentali di una disposizione o di un provvedimento nazionale che, in una situazione in cui l'operato degli Stati membri non è del tutto determinato dal diritto dell'Unione, attua tale diritto, resta consentito alle autorità e ai giudici nazionali applicare gli standard nazionali di tutela dei diritti fondamentali, a patto che tale applicazione non comprometta il livello di tutela previsto dalla Carta, come interpretata dalla Corte, né il primato, l'unità e l'effettività del diritto dell'Unione.
Per quanto riguarda il principio del ne bis in idem, la Corte rileva che esso non osta a che uno Stato membro imponga, per le medesime violazioni di obblighi dichiarativi in materia di IVA, una combinazione di sanzioni fiscali e penali. Infatti, per assicurare la riscossione di tutte le entrate provenienti dall'IVA e tutelare in tal modo gli interessi finanziari dell'Unione, gli Stati membri dispongono di una libertà di scelta delle sanzioni applicabili. Esse possono quindi essere inflitte sotto forma di sanzioni amministrative, di sanzioni penali o di una combinazione delle due. Solo qualora la sanzione fiscale sia di natura penale e sia divenuta definitiva ai sensi della Carta il principio del ne bis in idem osta a che procedimenti penali per gli stessi fatti siano avviati nei confronti di una stessa persona.
La natura penale di sanzioni fiscali dev'essere valutata in base a tre criteri. Il primo consiste nella qualificazione giuridica dell'illecito nel diritto nazionale, il secondo nella natura stessa dell'illecito e il terzo nella natura nonché nel grado di severità della sanzione in cui l'interessato rischia di incorrere. Spetta al giudice nazionale valutare, alla luce di tali criteri, se occorra procedere ad un esame del cumulo di sanzioni fiscali e penali previsto dalla legislazione nazionale sotto il profilo degli standard nazionali, circostanza che potrebbe eventualmente indurlo a considerare tale cumulo contrario a detti standard, a condizione che le rimanenti sanzioni siano effettive, proporzionate e dissuasive. La Corte rileva poi che il diritto dell'Unione non disciplina i rapporti tra la CEDU e gli ordinamenti giuridici degli Stati membri e nemmeno determina le conseguenze che un giudice nazionale deve trarre nell'ipotesi di conflitto tra i diritti garantiti da tale convenzione ed una norma di diritto nazionale.
La Corte ricorda tuttavia le conseguenze che il giudice nazionale deve trarre da un conflitto tra disposizioni nazionali e diritti garantiti dalla Carta. Il giudice nazionale incaricato di applicare, nell'ambito della propria competenza, le norme di diritto dell'Unione ha l'obbligo di garantire la piena efficacia di tali norme, disapplicando all'occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale, anche posteriore, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale.
Infatti, sarebbe incompatibile con le esigenze inerenti alla natura stessa del diritto dell'Unione qualsiasi disposizione nazionale o qualsiasi prassi, legislativa, amministrativa o giudiziaria, che porti ad una riduzione dell'efficacia del diritto dell'Unione per il fatto che sia negato al giudice, competente ad applicare tale diritto, il potere di fare, all'atto stesso di tale applicazione, tutto quanto è necessario per disapplicare le disposizioni legislative nazionali che eventualmente siano d'ostacolo alla piena efficacia delle norme dell'Unione.
Ne risulta che il diritto dell'Unione osta ad una prassi giudiziaria che subordina l'obbligo, per il giudice nazionale, di disapplicare ogni disposizione che sia in contrasto con un diritto fondamentale garantito dalla Carta alla condizione che tale contrasto risulti chiaramente dal tenore della medesima o dalla relativa giurisprudenza, dal momento che essa priva il giudice nazionale del potere di valutare pienamente, se del caso con la collaborazione della Corte, la compatibilità di tale disposizione nazionale con la Carta medesima.

1 Articolo 50 della Carta di diritti fondamentali.
2 Protocollo n. 7 (articolo 4) della Convenzione europea per la salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà fondamentali (CEDU).
3 Per l'esercizio fiscale 2004, una sovrattassa di SEK 35 542 (circa EUR 4 117) a titolo dei redditi derivanti dalla sua attività economica, di SEK 4 872 (circa EUR 564) a titolo dell'IVA e di SEK 7 138 (circa EUR 826) a titolo dei contributi sociali dei datori di lavoro; per l'esercizio fiscale 2005, una sovrattassa di SEK 54 240 (circa EUR 6 283) a titolo dei redditi derivanti dalla sua attività economica, di SEK 3 255 (circa EUR 377) a titolo dell'IVA e di SEK 7 172 (circa EUR 830) a titolo dei contributi sociali dei datori di lavoro.
4 Articoli 2, 250, paragrafo 1, e 273 della direttiva IVA 2006/112 (già articoli 2 e 22 della sesta direttiva) e articolo 325 TFUE.

Sentenza nella causa C-11/11 - I passeggeri di un volo con una o più coincidenze hanno diritto a compensazione pecuniaria qualora il loro volo raggiunga la destinazione finale con un ritardo di durata pari o superiore a tre ore

Sentenza nella causa C-11/11
Air France SA / Heinz-Gerke Folkerts e Luz-Tereza Folkerts

 

I passeggeri di un volo con una o più coincidenze hanno diritto a compensazione pecuniaria qualora il loro volo raggiunga la destinazione finale con un ritardo di durata pari o superiore a tre ore

Il fatto che il ritardo del volo iniziale non abbia superato i limiti stabiliti dal diritto dell'Unione non incide sul diritto a compensazione pecuniaria

Il regolamento in materia di compensazione ed assistenza ai passeggeri1 riconosce loro, in linea di principio, assistenza in caso di ritardo del loro volo. La Corte di giustizia, nella sua sentenza Sturgeon2 ha dichiarato inoltre che i passeggeri, il cui volo abbia subìto un ritardo, possono parimenti ottenere una compensazione pecuniaria, ancorché tale diritto sia espressamente riconosciuto dal regolamento soltanto per il caso di voli cancellati e che raggiungano la loro destinazione finale con un ritardo di durata pari o superiore a tre ore rispetto all'orario di arrivo previsto. Siffatta compensazione pecuniaria forfetaria, d'importo compreso tra EUR 250 ed EUR 600 in funzione della lunghezza del volo, è determinata in base all'ultima destinazione che il passeggero raggiunga dopo l'orario previsto.

La sig.ra Folkerts era munita di una prenotazione per un volo da Brema (Germania) a Asunción (Paraguay), via Parigi (Francia) e San Paolo (Brasile). Il volo da Brema con destinazione Parigi, effettuato dalla compagnia Air France, subiva un ritardo alla partenza e l'aeromobile decollava con un ritardo di circa due ore e mezza rispetto all'orario di partenza iniziale. Di conseguenza la sig.ra Folkerts perdeva la sua coincidenza a Parigi per San Paolo, effettuata parimenti dall'Air France, che trasferiva successivamente tale prenotazione su un volo successivo per la medesima destinazione. A causa del suo arrivo tardivo a San Paolo, la sig.ra Folkerts perdeva la coincidenza per Asunción originariamente prevista e ivi giungeva con un ritardo di undici ore rispetto all'orario di arrivo inizialmente previsto.

Poiché l'Air France veniva condannata a corrispondere alla sig.ra Folkerts un risarcimento danni, comprensivo, in particolare, della somma di EUR 600 ai sensi del regolamento, detta compagnia proponeva ricorso dinanzi al Bundesgerichtshof (Corte suprema federale tedesca). Tale giudice chiede alla Corte di giustizia se il passeggero aereo abbia diritto a compensazione pecuniaria qualora il suo volo abbia subìto un ritardo alla partenza inferiore a tre ore ma abbia raggiunto la sua destinazione finale con un ritardo di durata pari o superiore a tre ore rispetto all'orario di arrivo inizialmente previsto.

Nella sua odierna sentenza la Corte rammenta innanzitutto che il regolamento intende riconoscere diritti minimi ai passeggeri del trasporto aereom, allorché questi ultimi si trovano di fronte a tre tipi di situazioni distinte: al negato imbarco non consenziente, alla cancellazione del loro volo e, infine, al ritardo del loro volo.

Successivamente la Corte si richiama alla sua giurisprudenza secondo la quale i passeggeri di voli ritardati che subiscono un ritardo prolungato – ovvero di durata pari o superiore a tre ore –

analogamente ai passeggeri il cui volo iniziale sia stato cancellato e ai quali il vettore aereo non è in grado di proporre un riavviamento alle condizioni di cui al regolamento, dispongono di un diritto a compensazione pecuniaria dal momento che patiscono una perdita di tempo irreversibile e, di conseguenza, un disagio analoghi (sentenze Sturgeon, Nelson3). Poiché detto disagio si concretizza, per quanto riguarda i voli ritardati, all'arrivo alla destinazione finale, il ritardo dev'essere valutato rispetto all'orario di arrivo previsto a tale destinazione, ovvero la destinazione dell'ultimo volo.

Ne consegue che, in caso di volo con una o più coincidenze, la compensazione pecuniaria forfetaria dev'essere determinata in funzione del ritardo rispetto all'orario d'arrivo previsto alla destinazione finale, da intendersi come la destinazione dell'ultimo volo sul quale si è imbarcato il passeggero.

La soluzione opposta costituirebbe una disparità di trattamento ingiustificata, dal momento che si perverrebbe a considerare diversamente i passeggeri di voli con ritardo all'arrivo alla loro destinazione finale di durata pari o superiore a tre ore rispetto all'orario previsto, a seconda del fatto che il ritardo rispetto all'orario di partenza previsto abbia o meno superato i limiti stabiliti dal regolamento, e ciò benché il loro disagio risultante da una perdita di tempo irreversibile sia identico.

La Corte precisa a tal proposito che la compensazione pecuniaria forfetaria che spetta ad un passeggero ai sensi del regolamento, allorché il suo volo raggiunga la sua destinazione finale con un ritardo di durata pari o superiore a tre ore rispetto all'orario di arrivo previsto, non è subordinata al rispetto dei presupposti che danno diritto alle misure di assistenza previste in caso di ritardo del volo alla partenza.

Per quanto riguarda le conseguenze finanziarie per i vettori aerei, la Corte rileva che queste possono essere attenuate, innanzitutto, qualora il vettore sia in grado di dimostrare che il ritardo prolungato è dovuto a circostanze eccezionali che non si sarebbero potute evitare anche se fossero state adottate tutte le misure del caso, ossia circostanze che sfuggono all'effettivo controllo del vettore aereo (sentenza Wallentin-Hermann4). Successivamente, gli obblighi assolti in forza del regolamento non compromettono il diritto dei vettori di chiedere il risarcimento a qualsiasi soggetto che abbia cagionato il ritardo, compresi i terzi (sentenza Nelson e a.). Ancora, secondo il regolamento, l'importo della compensazione pecuniaria, fissato in EUR 250, 400 e 600 in funzione della lunghezza dei voli considerati, può essere ulteriormente ridotto del 50%qualora il ritardo rimanga, per un volo superiore a 3 500 km, inferiore a quattro ore. La Corte ricorda altresì che l'obiettivo di protezione dei consumatori, e, quindi, dei passeggeri del trasporto aereo, è idoneo a giustificare conseguenze economiche negative, anche considerevoli, per gli operatori economici.

Di conseguenza, la Corte risponde dichiarando che il passeggero di un volo con una o più coincidenze ha diritto a compensazione pecuniaria qualora subisca un ritardo alla partenza di durata inferiore ai limiti stabiliti dal regolamento, ma abbia raggiunto la sua destinazione finale con un ritardo di durata pari o superiore a tre ore rispetto all'orario di arrivo previsto. Infatti, detta compensazione non è subordinata all'esistenza di un ritardo alla partenza.

 

1 Regolamento (CE) n. 261/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio, dell'11 febbraio 2004, che istituisce regole comuni in materia di compensazione ed assistenza ai passeggeri in caso di negato imbarco, di cancellazione del volo o di ritardo prolungato e che abroga il regolamento (CEE) n. 295/91 (GU L 46, pag. 1).

2 Sentenza della Corte del 19 novembre 2009, cause riunite C-402/07 e C-432/07; Sturgeon / Condor Flugdienst GmbH e Böck e a. / Air France SA; v. altresì comunicato stampa n. 102/09.  

Sentenza nella causa C-399/11 La consegna di una persona alle autorità giudiziarie di un altro Stato membro in esecuzione di un mandato d’arresto europeo non può essere subordinata alla possibilità di una revisione della sentenza di condanna in contumacia

Sentenza nella causa C-399/11

Stefano Melloni / Ministerio fiscal

La consegna di una persona alle autorità giudiziarie di un altro Stato membro in esecuzione di un mandato d’arresto europeo non può essere subordinata alla possibilità di una revisione della sentenza di condanna in contumacia

La decisione quadro sul mandato d’arresto europeo riflette il consenso degli Stati membri sulla portata dei diritti processuali di cui godono le persone condannate in contumacia che siano raggiunte da un mandato d’arresto europeo

La decisione quadro sul mandato d’arresto europeo

1 mira a sostituire il sistema multilaterale di estradizione tra Stati membri con un sistema di consegna tra autorità giudiziarie delle persone condannate o sospettate ai fini dell’esecuzione di sentenze o dell’instaurazione di azioni penali. Tale sistema tende dunque a facilitare e ad accelerare la cooperazione giudiziaria per contribuire a realizzare l’obiettivo assegnato all’Unione di diventare uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia fondato sull’elevato livello di fiducia che deve esistere tra gli Stati membri.

Nell’ottobre 1996, l'Audiencia Nacional (Tribunale centrale, Spagna) ha concesso l’estradizione verso l’Italia del sig. Stefano Melloni, affinché fosse ivi giudicato per i fatti esposti nei mandati d’arresto emessi dal Tribunale di Ferrara. Rimesso in libertà dietro una cauzione di ESP 5 000 000 (cioè quasi EUR 30 000), il sig. Melloni si è dato alla fuga e dunque non ha potuto essere consegnato alle autorità italiane.

Nel 1997, il Tribunale di Ferrara, rilevata la mancata comparizione del sig. Melloni, ha autorizzato l’esecuzione delle notifiche presso i difensori da lui in precedenza nominati. Con sentenza del 2000, confermata in appello e in Cassazione, il sig. Melloni è stato condannato in contumacia per bancarotta fraudolenta a dieci anni di reclusione.

Arrestato da parte della polizia spagnola, il sig. Melloni si è opposto alla propria consegna alle autorità italiane, sostenendo, in primo luogo, che durante il processo di appello egli aveva nominato un altro avvocato e revocato la nomina dei due precedenti e che ciononostante le notifiche avevano continuato a essere effettuate presso questi ultimi. In secondo luogo, egli ha sostenuto che il diritto processuale italiano non prevede la possibilità di impugnare le sentenze di condanna pronunciate in contumacia e che pertanto il mandato d’arresto avrebbe dovuto essere subordinato, se del caso, alla condizione che l’Italia garantisse la possibilità impugnare la sentenza.

Nel settembre 2008, l’Audiencia Nacional ha autorizzato la consegna del sig. Melloni alle autorità italiane ai fini dell’esecuzione della sentenza di condanna inflittagli dal Tribunale di Ferrara, ritenendo non dimostrato che gli avvocati nominati dal sig. Melloni avessero cessato di rappresentarlo. Il giudice spagnolo ha giudicato che i diritti della difesa dell’interessato erano stati rispettati, dal momento che egli era venuto previamente a conoscenza della celebrazione del processo, si era volontariamente reso contumace e aveva nominato ai fini della sua rappresentanza e difesa due avvocati, i quali erano intervenuti a tale titolo nel procedimento di primo grado, in appello e in cassazione, esaurendo così i mezzi di ricorso.

Il sig. Melloni ha impugnato tale decisione dinanzi al Tribunal Constitucional (Corte costituzionale, Spagna). Tale giudice domanda alla Corte di giustizia se la decisione quadro permetta ai giudici spagnoli − come richiede la giurisprudenza del Tribunal Constitucional − di subordinare la consegna del sig. Melloni alla possibilità di revisione della sua sentenza di condanna.

Nella sua sentenza odierna, la Corte ricorda, in primo luogo, che gli Stati membri sono tenuti in linea di principio a dar corso ad un mandato d’arresto europeo. L’autorità giudiziaria dell’esecuzione può subordinare l’esecuzione di un mandato d’arresto soltanto alle condizioni indicate nella decisione quadro.

A questo proposito, una norma della decisione quadro

2 impedisce alle autorità giudiziarie di rifiutare l’esecuzione del mandato emesso ai fini dell’esecuzione di una pena, nel caso in cui l’interessato non sia comparso personalmente al processo, quando questi, essendo stato informato della fissazione del processo, abbia conferito mandato ad un difensore per patrocinarlo in giudizio e sia stato da questi effettivamente difeso. Questa sarebbe la situazione del sig. Melloni nel caso di specie.

Pertanto, la Corte ritiene che il tenore letterale, il contesto e lo scopo della suddetta norma

non ammettano che l’autorità giudiziaria dell’esecuzione (Spagna) subordini l’esecuzione di un mandato d’arresto europeo alla condizione che la sentenza di condanna pronunciata in contumacia possa essere oggetto di revisione nello Stato membro che ha emesso il mandato d’arresto (Italia)
. Infatti, il legislatore dell’Unione ha deciso di prevedere in maniera esaustiva i casi in cui l’esecuzione di un mandato d’arresto per l’esecuzione di una decisione in contumacia deve essere considerata non lesiva dei diritti della difesa. Questa soluzione è incompatibile con il mantenimento della possibilità, per l’autorità giudiziaria dell’esecuzione, di subordinare la stessa alla condizione che la sentenza di condanna possa essere oggetto di revisione per garantire i diritti della difesa dell’interessato.

In secondo luogo, la Corte ritiene che la norma della decisione quadro sia compatibile con il diritto ad una tutela giurisdizionale effettiva e ad un processo equo, nonché con i diritti della difesa garantiti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Sebbene il diritto dell’imputato a comparire personalmente al processo costituisca un elemento essenziale del diritto a un equo processo, tale diritto non è assoluto, in quanto l’imputato, con alcune garanzie, può rinunciarvi. La norma stabilisce dunque i presupposti, in presenza dei quali si ritiene che l’interessato abbia rinunciato volontariamente e inequivocabilmente a comparire al processo.

Infine, la Corte rileva che neanche l’articolo 53 della Carta, secondo cui quest’ultima non pregiudica i diritti dell’uomo riconosciuti, tra l’altro, dalle costituzioni degli Stati membri, consente a uno Stato membro di subordinare la consegna di una persona condannata in contumacia alla condizione che la sentenza di condanna possa essere oggetto di revisione nello Stato membro emittente, al fine di evitare una lesione del diritto ad un processo equo e ai diritti della difesa garantiti dalla sua Costituzione. Certo, tale articolo della Carta conferma che, quando un atto di diritto dell’Unione richiede misure nazionali di attuazione, le autorità e i giudici nazionali possono applicare gli standard nazionali di tutela dei diritti fondamentali, a patto che tale applicazione non comprometta il livello di tutela previsto dalla Carta, né il primato, l’unità e l’effettività del diritto dell’Unione. Ebbene, subordinare la consegna di una persona ad una simile condizione, non prevista dalla decisione quadro, comporterebbe, rimettendo in discussione l’uniformità dello standard di tutela dei diritti fondamentali da essa definito, una lesione dei principi di fiducia e riconoscimento reciproci che essa mira a rafforzare e, pertanto, un pregiudizio per la sua effettività. Infatti, la decisione quadro riflette il consenso raggiunto dagli Stati membri nel loro insieme a proposito della portata da attribuire, a titolo del diritto dell’Unione, ai diritti processuali di cui godono le persone condannate in contumacia che siano raggiunte da un mandato d’arresto europeo.
 

1

Decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri, come modificata dalla decisione quadro 2009/299/GAI del Consiglio, del 26 febbraio 2009, che rafforza i diritti processuali delle persone e promuove l’applicazione del principio del reciproco riconoscimento alle decisioni pronunciate in assenza dell’interessato al processo (GU L 190, pag. 1 e GU L 81, pag. 24).

2

Articolo 4 bis
, paragrafo 1, lett. a) e b).

Conclusioni dell’avvocato generale nella causa C-648/11

Conclusioni dell'avvocato generale nella causa C-648/11

MA, BT, DA / Secretary of State for the Home Department

L'avvocato generale Cruz Villalón considera che, quando un minore non accompagnato ha presentato domande di asilo in più Stati membri, sarà competente ad esaminarla lo Stato membro in cui è stata presentata l'ultima

A tal fine occorre che non vi sia alcun suo familiare che si trovi legalmente in un altro Stato membro e che l'interesse superiore del minore non esiga altra soluzione

Il regolamento «Dublino II»

1 enuncia i criteri che consentono di determinare lo Stato membro competente a decidere su di una domanda di asilo presentata all'interno dell'Unione, cosicché, in via di principio, la competenza spetta ad un solo Stato membro. Qualora un cittadino di un paese terzo chieda asilo in uno Stato membro che non sia quello designato quale competente dal regolamento, questo prevede una procedura di trasferimento del richiedente nello Stato membro competente.

Due minori aventi la cittadinanza eritrea (MA e BT) ed uno con cittadinanza irachena e di origine curda (DA) hanno presentato domanda di asilo nel Regno Unito. Le autorità britanniche hanno rilevato che essi avevano già presentato domande di asilo in altri Stati membri, ossia, Italia (MA e BT) e Paesi Bassi (DA). Ritenendo che detti Stati fossero competenti ad esaminare le domande, veniva deciso il trasferimento dei minori in questione a tali Stati membri.

Qualora il richiedente asilo sia un minore non accompagnato, il regolamento

2 stabilisce che è competente per l'esame della domanda lo Stato membro nel quale si trova legalmente un suo familiare, purché ciò sia nel miglior interesse del minore. In mancanza di un familiare, è competente per l'esame della domanda lo Stato membro in cui il minore ha presentato la domanda. Tuttavia, in quest'ultima ipotesi il regolamento non prevede espressamente una soluzione nel caso in cui il minore abbia presentato domande di asilo in più di uno Stato membro. L'interpretazione di tale questione è affrontata per la prima volta nelle conclusioni odierne dell'avvocato generale Cruz Villalón.

Si segnala che, prima di procedere al trasferimento di MA e DA, ma successivamente all'esecuzione del trasferimento di BT, le autorità britanniche, avvalendosi della «clausola di sovranità» contemplata dal regolamento, hanno deciso di prendere in esame esse stesse le domande di asilo. Tale decisione ha comportato che BT, già trasferito in Italia, potesse rientrare nel Regno Unito. La clausola di sovranità stabilisce che ciascuno Stato membro può decidere di esaminare una domanda d'asilo presentata da un cittadino di un paese terzo, anche se tale esame non gli compete in base ai criteri stabiliti nel regolamento. Nondimeno, ciò che va accertato è se il risultato raggiunto nel presente caso, frutto di una decisione libera e discrezionale del Regno Unito, sarebbe risultat

ο obbligatoriο in conseguenza di quanto previsto dal regolamento stesso.

L'avvocato generale Cruz Villalón considera che,

qualora un minore non accompagnato abbia presentato domande di asilo in più Stati membri, e non vi sia alcun parente che si trovi legalmente in un altro Stato membro, lo Stato membro competente per l'esame della

domanda d'asilo deve essere, in via di principio, in funzione dell'interesse superiore del minore e, tranne nel caso in cui questo stesso interesse imponga una diversa soluzione, lo Stato in cui è stata presentata l'ultima domanda

.

L'importanza preminente dell'interesse superiore del minore, prevista nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, deve essere considerata decisiva al fine di individuare lo Stato competente fra tutti quelli che hanno ricevuto una domanda d'asilo. Ciò va reso, inoltre, compatibile con gli obiettivi di chiarezza e di rapidità richiesti dal regolamento per la determinazione dello Stato membro competente per l'esame di una domanda di asilo. Pertanto, la competenza deve essere attribuita allo Stato membro che si trovi nella posizione migliore per valutare cosa sia nel miglior interesse del minore. Tale Stato membro risulterà essere di norma quello in cui si trova il minore e che, generalmente, è lo Stato membro che ha ricevuto l'ultima domanda d'asilo. Detto Stato è quello che dispone dell'esame del minore e della possibilità di tenere in considerazione quelli che, secondo la sua percezione, costituiscono i suoi interessi. Inoltre, sia per ragioni temporali sia in considerazione dell'esigenza di garantire il miglior trattamento dei minori, non è opportuno sottoporre tali richiedenti asilo a trasferimenti che non siano strettamente necessari.

L'avvocato generale riconosce che la soluzione proposta può produrre l'effetto indesiderato di una sorta di «forum shopping», cosicché i richiedenti potrebbero essere indotti a scegliere, al momento della presentazione della richiesta di asilo, lo Stato membro in cui sarebbe applicata la disciplina a loro più confacente. Siffatto rischio potenziale risulta tuttavia sufficientemente giustificato per il fatto che solo in tal modo si può garantire che venga prestata la dovuta attenzione all'interesse superiore del minore.

In ogni caso, il criterio secondo cui sarà competente lo Stato membro dell'ultima domanda di asilo si giustifica solo in quanto offre le garanzie migliori, in via di principio, di soddisfare il miglior interesse del minore. Di conseguenza, qualora, in un caso determinato, tale considerazione sia esclusa, lo stesso interesse del minore esige che siffatto criterio non sia applicato.

1 Regolamento (CE) n. 343/2003 del Consiglio, del 18 febbraio 2003, che stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l'esame di una domanda d'asilo presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un paese terzo (GU L 50, pag. 1).

2 Articolo 6.

Sentenza nella causa C-282/11 - Il diritto dell'Unione non tollera la normativa spagnola in materia di modalità di calcolo della pensione di vecchiaia, in quanto non tiene adeguatamente conto della circostanza del lavoro svolto anche in uno Stato membro diverso dalla Spagna

Sentenza nella causa C-282/11

Salgado González / INSS, TGSS

Il diritto dell'Unione non tollera la normativa spagnola in materia di modalità di calcolo della pensione di vecchiaia, in quanto non tiene adeguatamente conto della circostanza del lavoro svolto anche in uno Stato membro diverso dalla Spagna

La normativa spagnola concede il diritto di godere di una pensione di vecchiaia di tipo contributivo a condizione, segnatamente, di avere maturato un periodo minimo contributivo di quindici anni. L'«importo di base» di tale prestazione si calcola sommando le basi contributive del lavoratore durante i quindici anni immediatamente precedenti l'ultimo contributo versato in Spagna e dividendo questo importo per 210. Il divisore 210 corrisponderebbe al totale dei dodici contributi ordinari e dei due straordinari annui versati per un periodo di quindici anni.

La sig.ra Salgado González ha versato contributi in Spagna al regime speciale dei lavoratori autonomi dal 1° febbraio 1989 al 31 marzo 1999 e, in Portogallo, dal 1° marzo 2000 al 31 dicembre 2005. Essa ha chiesto di godere di una pensione di vecchiaia in Spagna, che le è stata concessa dall'Instituto Nacional de la Seguridade Social (INSS,ente previdenziale nazionale) con effetti dal 1° gennaio 2006 per un importo di base pari a EUR 336,86 mensili.

Per verificare se avesse versato contributi per il periodo minimo di quindici anni, l'INSS ha tenuto conto, conformemente al diritto dell'Unione, sia dei periodi maturati in Spagna sia di quelli maturati in Portogallo. Tuttavia, per calcolare l'importo di base, l'INSS ha cumulato le basi contributive spagnole dal 1° aprile 1984 al 31 marzo 1999 – ossia i quindici anni precedenti il versamento dell'ultimo contributo versato dalla sig.ra Salgado González in Spagna – e le ha divise per 210. Poiché aveva iniziato a versare contributi alla previdenza spagnola solo il 1° febbraio 1989, i contributi tra il 1° aprile 1984 e il 31 gennaio 1989 sono stati contabilizzati come pari a zero.

Ritenendo che occorresse inserire nel calcolo della sua prestazione di vecchiaia anche i contributi versati in Portogallo, la sig.ra Salgado González ha chiesto che tale importo fosse rivisto e stabilito pari a EUR 864,14 mensili. Avendo l'INSS ha respinto la sua domanda, la sig.ra Salgado González ha adito il Tribunal Superior de Justicia de Galicia (Corte suprema della Regione autonoma di Galizia, Spagna).

Detto giudice dichiara di non aver nessun dubbio sull'impossibilità di includere i contributi versati in Portogallo nel calcolo della pensione di vecchiaia a carico della Spagna, ma chiede alla Corte di giustizia se la normativa spagnola, la quale non consente di adeguare né la durata del periodo contributivo, né il divisore utilizzati per tener conto del fatto che il lavoratore ha esercitato il suo diritto alla libera circolazione, sia conforme al diritto dell'Unione

1.

In effetti, detto giudice ritiene che la normativa spagnola instauri una disparità di trattamento tra lavoratori sedentari e lavoratori emigranti. Da un lato, a fronte di un onere contributivo equivalente,

il lavoratore emigrante comunitario otterrebbe un importo di base più esiguo del lavoratore sedentario che abbia versato contributi solo in Spagna. Dall'altro, più un lavoratore versa contributi in uno Stato membro diverso dalla Spagna, meno dispone di tempo nel corso della sua carriera lavorativa per poter versare i suoi contributi spagnoli – i soli a poter essere presi in considerazione per il calcolo della pensione.

In via preliminare, la Corte ricorda che il diritto dell'Unione non organizza un regime comune di previdenza sociale, ma lascia sussistere regimi nazionali distinti e ha come solo obiettivo quello di assicurare un coordinamento tra essi. Pertanto, gli Stati membri conservano la loro competenza a disciplinare i propri sistemi di previdenza sociale. Ciò nondimeno, nell'esercizio di tale competenza gli Stati membri devono rispettare il diritto dell'Unione e, in particolare, la libertà riconosciuta a qualsiasi cittadino dell'Unione di circolare e soggiornare nel territorio degli Stati membri. Di conseguenza, i lavoratori emigranti non devono subire una riduzione dell'importo delle prestazioni previdenziali per il fatto di avere esercitato il loro diritto alla libera circolazione.

La Corte ricorda poi che, quando la normativa di uno Stato membro prevede che il calcolo delle prestazioni si fondi su una base contributiva media – come è il caso della Spagna – il diritto dell'Unione prevede che il calcolo della base contributiva media si base sull'importo dei soli contributi effettivamente versati. Tuttavia, al fine di calcolare l'importo di base della prestazione della sig.ra Salgado González, risulta che l'INSS ha tenuto conto non solo dei contributi effettivamente versati in Spagna, ma anche di periodi contributivi fittizi compresi tra il 1° aprile 1984 e il 31 gennaio 1989, al fine di completare i quindici anni precedenti il suo ultimo versamento al regime previdenziale spagnolo. Poiché questi periodi dovevano necessariamente essere contabilizzati come pari a zero, la loro considerazione ha portato al risultato di ridurre la base contributiva media. Orbene, è giocoforza constatare che siffatta riduzione non si sarebbe verificata qualora la sig.ra Salgado González avesse versato contributi unicamente in Spagna, senza esercitare il suo diritto alla libera circolazione; un risultato del genere è contrario al diritto dell'Unione.

La Corte aggiunge che il risultato potrebbe essere diverso qualora la normativa spagnola prevedesse sistemi per adeguare il calcolo dell'importo di base della pensione di vecchiaia tenendo conto dell'esercizio, da parte del lavoratore, del suo diritto alla libera circolazione. Nel caso di specie, il divisore potrebbe essere modificato per riflettere il numero di versamenti contributivi ordinari e straordinari realmente effettuati dall'assicurato.

Di conseguenza, la Corte risponde che il diritto dell'Unione osta a una normativa nazionale in forza della quale l'importo di base della pensione di vecchiaia del lavoratore autonomo, emigrante o meno, è sempre calcolato a partire dalle basi contributive dal medesimo versate per un periodo di riferimento fisso che precede il versamento della sua ultima contribuzione in tale Stato, cui viene applicato un divisore fisso, senza che né la durata di tale periodo né detto divisore possano essere adeguati per tener conto del fatto che il lavoratore interessato abbia esercitato il suo diritto alla libera circolazione.
 

1 in particolare, al regolamento (CEE) n. 1408/71 del Consiglio, del 14 giugno 1971, relativo all'applicazione dei regimi di sicurezza sociale ai lavoratori subordinati, ai lavoratori autonomi e ai loro familiari che si spostano all'interno della comunità (GU L 149, pag. 2), nella versione modificata e aggiornata dal regolamento (CE) n. 118/97 del Consiglio, del 2 dicembre 1996 (GU 1997, L 28, pag. 1), quale modificato dal regolamento (CE) n. 629/2006 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 5 aprile 2006 (GU L 114, pag. 1), e al regolamento (CE) n. 833/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativo al coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale (GU L 166, pag. 1), quale modificato dal regolamento (CE) n. 988/2009 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 settembre 2009 (GU L 284, pag. 43).

Sentenza nella causa C-68/12 È contrario alle regole di concorrenza un accordo tra imprese inteso ad escludere un concorrente, anche se quest’ultimo opera illegalmente sul mercato

Sentenza nella causa C-68/12

Protimonopolný úrad Slovenskej republiky / Slovenská sporite

ľňa a.s.

È contrario alle regole di concorrenza un accordo tra imprese inteso ad escludere un concorrente, anche se quest'ultimo opera illegalmente sul mercato

Le regole di concorrenza sono volte a proteggere non solo tale concorrente, ma altresì la struttura del mercato e, pertanto, la concorrenza in quanto tale

Nel 2009 l'Autorità garante della concorrenza della Repubblica slovacca ha constatato che tre importanti banche slovacche, ossia la Slovenská sporite

ľňa, la Československá obchodná banka a.s. e la Všeobecná úverová banka, avevano violato le regole di concorrenza dell'Unione. Esse, infatti, avevano deciso di risolvere in maniera coordinata i contratti relativi ai conti correnti dell'impresa ceca Akcenta CZ e di non stipulare più nuovi contratti con essa. Quest'ultima società è un istituto diverso da un istituto bancario che fornisce servizi consistenti in operazioni di cambio in forma scritturale1. Essa ha quindi bisogno di conti correnti aperti presso istituti bancari per poter esercitare le proprie attività, che comprendono il trasferimento di divise da e verso l'estero, anche per i propri clienti nella Repubblica slovacca. Secondo l'Autorità garante della concorrenza, le tre banche si sono concertate in quanto scontente della diminuzione dei loro profitti derivante dall'attività della società Akcenta, considerata come una concorrente che forniva servizi ai loro clienti.

L'autorità slovacca ha irrogato ammende alla

Československá obchodná banka a.s. (EUR 3 183 427), alla Slovenská sporitel'ňa (EUR 3 197 912), e alla Všeobecná úverová banka a.s, (EUR 3 810 461) per violazione del diritto della concorrenza.

Una della banche, la Slovenská sporitel'

ňa, ha impugnato la decisione con cui l'autorità nazionale le aveva inflitto l'ammenda. La banca sostiene di non aver violato le regole della concorrenza in quanto la Akcenta non poteva essere considerata sua concorrente. Infatti, secondo la banca, poiché l'impresa ceca non disponeva dell'autorizzazione richiesta dal diritto slovacco per l'esercizio della sua attività, essa operava illegalmente sul mercato slovacco.

Il Najvyšší súd Slovenskej republiky (Corte suprema della Repubblica slovacca), investito della causa, chiede alla Corte di giustizia se la circostanza che un concorrente leso da un accordo di cartello operi illegalmente sul mercato sia giuridicamente rilevante per la valutazione del cartello stesso.

Nella sua sentenza odierna la Corte ricorda che, ove un accordo abbia per oggetto di restringere, impedire o falsare il gioco della concorrenza, è superfluo prendere in considerazione i suoi effetti concreti sulla concorrenza per stabilirne l'illegittimità. La Corte precisa altresì che le regole di concorrenza dell'Unione sono destinate a tutelare non solo gli interessi dei concorrenti o dei consumatori, ma anche la struttura del mercato e, in tal modo, la concorrenza in quanto tale.

Nel caso di specie la Corte constata che l'accordo aveva specificamente ad oggetto la restrizione del gioco della concorrenza. Di conseguenza,

il fatto che l'Akcenta operasse sul mercato slovacco in modo asseritamente illegale non incide sull'accertamento dell'esistenza di un'infrazione alle regole di concorrenza. Peraltro, la Corte sottolinea che spetta alle autorità

pubbliche – e non a imprese o ad associazioni di imprese private – garantire il rispetto delle regole di concorrenza.

Inoltre la Corte rileva che la banca Slovenská sporite
ľna non può sottrarsi alla propria responsabilità derivante dall'accordo di cartello adducendo che il suo dipendente, che aveva partecipato alla riunione nel corso della quale era stato concluso l'accordo anticoncorrenziale, non aveva ricevuto un mandato. La Corte ricorda, infatti, che la partecipazione ad accordi illegali costituisce nella maggior parte dei casi un'attività clandestina che non si svolge nel rispetto di regole formali. È quindi raro che il rappresentante di un'impresa partecipi a una riunione munito di mandato al fine di commettere un'infrazione.
 

1 Operazioni di conversione con iscrizione su un conto in divisa.

Sentenza nella causa C-543/10 - Nell’ambito di una successione di contratti, stipulati tra parti stabilite in diversi Stati membri, una clausola attributiva di competenza contenuta in un contratto di compravendita tra il produttore e l’acquirente di un bene non può essere opposta al subacquirente, a meno che quest’ultimo abbia prestato il suo consenso alla stessa

Sentenza nella causa C-543/10

Refcomp SpA / Axa Corporate Solutions Assurance SA, Axa France IARD, Emerson Network e Climaveneta SpA

Nell'ambito di una successione di contratti, stipulati tra parti stabilite in diversi Stati membri, una clausola attributiva di competenza contenuta in un contratto di compravendita tra il produttore e l'acquirente di un bene non può essere opposta al subacquirente, a meno che quest'ultimo abbia prestato il suo consenso alla stessa

Il regolamento n. 44/2001

1 determina la competenza giurisdizionale in materia civile e commerciale, articolata intorno al principio fondamentale della competenza del giudice dello Stato membro in cui è domiciliato il convenuto. In taluni casi, tuttavia, il convenuto può essere citato dinanzi ai giudici di un altro Stato membro. Ciò accade, in particolare, quando le parti – di cui almeno una sia domiciliata nel territorio dell'Unione – abbiano pattuito in un contratto una clausola attributiva di competenza, mediante la quale esse stesse determinano il giudice competente.

La Doumer SNC ha fatto eseguire lavori di ristrutturazione di un complesso immobiliare situato a Courbevoie (Francia), assicurandosi presso la società Axa Corporate, avente sede in Francia. Nell'ambito di tali lavori, sono stati installati sistemi di climatizzazione, ciascuno dei quali era munito di una serie di compressori che erano stati: 1) fabbricati dalla società italiana Refcomp SpA; 2) acquistati presso quest'ultima e assemblati dalla Climaveneta, anch'essa società italiana, e infine 3) venduti alla Doumer dalla società Liebert, alla quale è ormai subentrata la società Emerson, a sua volta assicurata presso la compagnia Axa France, le cui rispettive sedi si trovano in Francia. Sopravvenivano alcuni malfunzionamenti nel sistema di climatizzazione e una perizia giudiziaria ha rivelato che i guasti provenivano da un difetto di fabbricazione dei compressori.

L'Axa Corporate, surrogata nei diritti della Doumer che aveva indennizzato quale sua assicurata, ha convenuto in giudizio il produttore italiano Refcomp, l'assemblatore Climaveneta ed il fornitore Emerson, dinanzi al tribunal de grande instance di Parigi, al fine di ottenerne la condanna in solido al risarcimento del pregiudizio subito. La Refcomp ha contestato la competenza del tribunale francese ed ha invocato una clausola attributiva della competenza ai giudici italiani contenuta nel contratto da essa stipulato con la Climaveneta. Dato che il tribunale respingeva l'eccezione di incompetenza sollevata dalla Refcomp, quest'ultima ha proposto appello avverso tale decisione e successivamente ricorso per cassazione.

La Cour de cassation (Francia) chiede quindi alla Corte di giustizia se una clausola attributiva di competenza, contenuta in un contratto di compravendita stipulato tra il produttore e l'acquirente iniziale di un bene e che rientra in una serie di contratti stipulati tra parti stabilite in diversi Stati membri, produca i suoi effetti nei confronti del subacquirente, in modo da consentirgli di avviare un'azione di responsabilità nei confronti del produttore.

Nella sua odierna sentenza, la Corte rileva che il regolamento non precisa se una clausola attributiva di competenza

2 possa essere trasmessa, oltre la cerchia composta dalle parti del

contratto iniziale, a un terzo, parte di un contratto ulteriore e che succede nei diritti e nelle obbligazioni di una delle parti del contratto iniziale.

La Corte ricorda che spetta al giudice nazionale adito esaminare se la clausola attribuiva della competenza ad un determinato giudice abbia effettivamente costituito oggetto del consenso delle parti, poiché la verifica dell'effettività del consenso degli interessati rappresenta uno degli scopi perseguiti dal regolamento. La Corte conclude che la clausola attributiva di competenza contenuta in un contratto può esplicare i suoi effetti soltanto nei rapporti tra le parti che hanno prestato il loro accordo alla stipulazione di tale contratto. Ne consegue che è opponibile ad un terzo soltanto se quest'ultimo abbia effettivamente prestato il suo consenso.

Pertanto, poiché la Corte ha già dichiarato che, ai fini dell'applicazione del regolamento, il subacquirente ed il produttore non possono essere considerati legati da un vincolo contrattuale

3, occorre dedurne che non è possibile ritenere, ai sensi del regolamento stesso, che essi «abbiano attribuito la competenza» di un giudice designato come competente nel contratto iniziale stipulato tra il produttore ed il primo acquirente.

Tale interpretazione del regolamento – che non rinvia agli ordinamenti giuridici nazionali – evita in tal modo di dar luogo a soluzioni divergenti tra gli Stati membri, tali da compromettere l'obiettivo di unificare le norme sulla competenza che il regolamento persegue. Un rinvio al diritto nazionale sarebbe altresì fattore d'incertezze, incompatibili con l'obiettivo di garantire la prevedibilità della competenza giurisdizionale, che rappresenta uno degli scopi del regolamento.

Di conseguenza, la Corte risponde dichiarando che il regolamento dev'essere interpretato nel senso che
una clausola attributiva di competenza, contenuta in un contratto di compravendita stipulato tra il produttore di un bene e l'acquirente iniziale, non può essere opposta al terzo subacquirente
che, in esito ad una successione di contratti traslativi di proprietà stipulati tra parti stabilite in diversi Stati membri, abbia acquistato tale bene ed intenda avviare un'azione di responsabilità nei confronti del produttore, salvo il caso in cui sia accertato che tale terzo ha prestato il suo consenso a detta clausola.

1 Regolamento (CE) n. 44/2001 del Consiglio, del 22 dicembre 2000, concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l'esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale (GU L 12 del 16.1.2001). Esso sostituisce la Convenzione di Bruxelles del 1968 concernente la competenza giurisdizionale e l'esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale (GU 1972, L 299, pag. 32).

2 Regolamento n. 44/2001 (articolo 23).

L'avvocato generale reputa che il Lussemburgo sia legittimato a subordinare al requisito di residenza il versamento del sussidio per gli studi superiori ai figli di lavoratori frontalieri - Conclusioni dell’avvocato generale nella causa C-20/12

Conclusioni dell'avvocato generale nella causa C-20/12

Elodie Giersch e a./ Lussemburgo

L'avvocato generale reputa che il Lussemburgo sia legittimato a subordinare al requisito di residenza il versamento del sussidio per gli studi superiori ai figli di lavoratori frontalieri

Suggerisce alla Corte di indicare al giudice del rinvio i criteri per verificare che tale requisito sia adeguato e proporzionato all'obiettivo di garantire il passaggio dell'economia lussemburghese a un'economia della conoscenza

La normativa lussemburghese

1 è applicata nel senso che è concesso un sussidio finanziario per gli studi superiori ai cittadini lussemburghesi e agli altri cittadini dell'Unione a condizione che gli uni e gli altri risiedano in Lussemburgo.

Sono stati presentati dinanzi al Tribunal administratif de Luxembourg (Tribunale amministrativo di Lussemburgo) vari ricorsi

2 di studenti, figli di lavoratori frontalieri in Lussemburgo, a seguito del rifiuto opposto dalle autorità lussemburghesi di concedere loro il sussidio finanziario per gli studi superiori, in quanto non risiedono in Lussemburgo. Essi contestano tale rifiuto, sulla base dell'asserita esistenza di una discriminazione dovuta al fatto che la normativa lussemburghese 3 comporta una differenza di trattamento tra i figli dei lavoratori lussemburghesi e quelli dei lavoratori frontalieri, il che sarebbe contrario al principio della libera circolazione delle persone. Lo Stato lussemburghese esclude qualsiasi discriminazione e, comunque, sostiene che detti sussidi non costituiscano un vantaggio sociale.

La domanda di pronuncia pregiudiziale del Tribunal administratif du Luxembourg, che ha interpellato la Corte, muove dal presupposto secondo cui, ai sensi dell'articolo 203 del codice civile lussemburghese, gli studenti devono essere considerati a carico dei loro genitori lavoratori frontalieri. L'avvocato generale esclude di poter pronunciarsi muovendo da un siffatto presupposto in quanto, secondo i principi di diritto internazionale privato, tali studenti possono essere considerati a carico di detto frontaliero soltanto se lo sono secondo la legge che ne definisce lo status personale, che può essere la legge dello Stato di cittadinanza, di domicilio o di residenza, ma non il diritto lussemburghese.

Ne consegue che il giudice del rinvio potrà porsi concretamente il problema solo dopo avere accertato non solo che gli studenti siano parte della famiglia dei lavoratori frontalieri, ma altresì che siano a carico di questi ultimi, per il fatto che gli stessi continuano a provvedere al loro mantenimento, verificando inoltre se tali studenti beneficino nel loro paese, effettivamente o potenzialmente, di una misura comparabile a quella introdotta con la legge del 26 luglio 2010.

Dopo questa premessa, l'avvocato generale osserva che, conformemente a una giurisprudenza già consolidata della Corte:

a) il sussidio agli studi superiori per i figli a carico dei lavoratori frontalieri costituisce un vantaggio sociale riguardo al quale questi ultimi hanno il diritto di avvalersi del principio di non

discriminazione sancito dal regolamento n. 1612/68, relativo alla libera circolazione dei lavoratori all'interno della Comunità, e

b) dal momento che il requisito di residenza è tale da operare principalmente a danno dei lavoratori migranti e dei lavoratori frontalieri cittadini di altri Stati membri, lo stesso, nei limiti in cui è imposto a studenti figli di lavoratori frontalieri, costituisce una discriminazione indiretta, in linea di principio vietata, a meno che non sia obiettivamente giustificata, sia idonea a garantire il conseguimento dell'obiettivo di cui trattasi e non ecceda quanto necessario per conseguirlo.

Al fine di dimostrare l'esistenza di una siffatta giustificazione, il governo lussemburghese invoca un obiettivo «politico» o «sociale», consistente nell'aumentare in misura significativa la percentuale di residenti in Lussemburgo titolari di un diploma di istruzione superiore e di assicurare il passaggio dell'economia lussemburghese ad un'economia della conoscenza. I residenti lussemburghesi presenterebbero quindi un legame con la società lussemburghese tale da far presumere che, dopo aver usufruito di un finanziamento lussemburghese dei loro studi, eventualmente seguiti all'estero, essi rientrerebbero per mettere le conoscenze così acquisite al servizio dello sviluppo dell'economia nazionale. Inoltre, la limitazione ai soli residenti lussemburghesi del beneficio dell'aiuto sarebbe necessaria per garantire il finanziamento del sistema, dovendosi garantire al contempo che non diventi un onere irragionevole, a danno del livello globale del sussidio agli studi superiori che può essere concesso da tale Stato.

Secondo l'avvocato generale, l'UE ha chiesto agli Stati membri di compiere sforzi per incrementare la percentuale di giovani in possesso di qualifiche dell'istruzione terziaria, anche se tali Stati membri dispongono di un ampio margine di discrezionalità per definire gli obiettivi della loro politica in materia di istruzione. Tale esigenza ha ispirato, in modo particolare, la scelta che il Lussemburgo ha effettuato con la legge del 2010, dato che la sua situazione economica è storicamente atipica. Infatti, da un'economia basata sull'industria mineraria e sulle acciaierie, il Lussemburgo ha attraversato una fase di transizione, a seguito della loro scomparsa, verso uno sviluppo dell'occupazione nel settore bancario e finanziario; successivamente, tale settore è stato fortemente minacciato, anche prima della crisi finanziaria – e lo è tuttora -, dall'azione intrapresa a livello dell'Unione per ridurre drasticamente i vantaggi di cui godeva il sistema bancario lussemburghese rispetto ai sistemi bancari degli altri Stati membri. Ne consegue che l'azione intrapresa dal Lussemburgo per assicurare un livello elevato di formazione della sua popolazione persegue un obiettivo legittimo che può essere considerato un motivo imperativo di interesse generale.

Contrariamente al governo lussemburghese, l'avvocato generale è persuaso che l'obiettivo della politica in materia di istruzione debba essere mantenuto distinto dall'obiettivo di bilancio, anche se la determinazione dei beneficiari di un vantaggio sociale incide logicamente sull'onere economico gravante sullo Stato. L'obiettivo di bilancio invocato dal Lussemburgo non costituisce di per sé un motivo atto a giustificare una disparità di trattamento tra i lavoratori lussemburghesi e quelli di altri Stati membri.

L'avvocato generale suggerisce di verificare che lo scopo economico ultimo perseguito – la transizione verso un'economia della conoscenza – per il quale il Lussemburgo ha introdotto la pratica discriminatoria sia seriamente ed effettivamente attuato al fine di evitare che i costi di tale pratica siano talmente elevati da rendere impossibile il conseguimento dello scopo medesimo. Spetta al giudice nazionale procedere a tale verifica.

L'avvocato generale esamina infine l'adeguatezza e la proporzionalità del requisito di residenza.

Qualora la Corte riconoscesse che uno Stato membro possa adottare determinate misure al fine di favorire l'accesso della sua popolazione all'istruzione superiore affinché la stessa successivamente integri e arricchisca il mercato del lavoro lussemburghese, una volta terminati gli studi, l'avvocato generale ritiene che il requisito di residenza sia idoneo a garantire l'obiettivo perseguito.

Per quanto riguarda la proporzionalità del requisito di residenza, spetta al giudice nazionale verificare, da una parte, l'esistenza di una ragionevole probabilità che i beneficiari del sussidio agli studi superiori residenti in Lussemburgo siano disponibili a rientrare in tale Stato una volta terminati gli studi e a inserirsi nella vita economica e sociale lussemburghese. D'altra parte, il giudice dovrà altresì verificare se l'obiettivo della trasformazione dell'economia lussemburghese in un'economia della conoscenza – e, pertanto, in un'economia che propone servizi ampiamente intesi – sia stato effettivamente perseguito con azioni pubbliche dirette a sviluppare concretamente nuove prospettive di occupazione.
 

1 Legge del 26 luglio 2010.

2 I loro ricorsi sono esemplificativi di circa 600 altri ricorsi analoghi pendenti.

3 Il requisito di residenza, secondo il giudice del rinvio, si applica indifferentemente ai cittadini lussemburghesi e ai cittadini di altri Stati membri, in quanto, nell'ambito dell'interpretazione del diritto nazionale, i requisiti di domicilio e di soggiorno sono, di fatto, equivalenti.

Secondo l’avvocato generale Wathelet, un contributo volontario obbligatorio (CVO), esteso con decisione delle autorità nazionali a tutti gli operatori aderenti ad una organizzazione interprofessionale agricola riconosciuta, non costituisce aiuto di Stato

Conclusioni dell'avvocato generale nella causa C-677/11

Doux Élevage SNC, Coopérative agricole UKL-ARREE / Ministère de l'Agriculture, de l'Alimentation, de la Pêche, de la Ruralité et de l'Aménagement du territoire, CIDEF

Secondo l'avvocato generale Wathelet, un contributo volontario obbligatorio (CVO), esteso con decisione delle autorità nazionali a tutti gli operatori aderenti ad una organizzazione interprofessionale agricola riconosciuta, non costituisce aiuto di Stato

Tale contributo non costituisce un vantaggio concesso direttamente o indirettamente mediante risorse statali e imputabile allo Stato

Il diritto dell'Unione vieta, nella misura in cui essi incidano sugli scambi tra Stati membri, gli aiuti di Stato concessi sotto qualsiasi forma alle imprese dagli Stati ovvero mediante risorse statali, i quali, favorendo talune imprese o talune produzioni, falsino o minaccino di falsare la concorrenza

1. Al fine di garantire l'attuazione di tali disposizioni, in virtù di una procedura di controllo e di autorizzazione preventiva, gli Stati sono tenuti a notificare alla Commissione europea i loro progetti di istituire o modificare gli aiuti e non possono darvi esecuzione senza l'approvazione della Commissione.

Il CIDEF (Comitato interprofessionale del tacchino francese), associazione senza scopo di lucro, è stato riconosciuto dalle autorità francesi come organizzazione interprofessionale agricola. Nel 2007, le organizzazioni professionali aderenti al CIDEF hanno firmato un accordo interprofessionale consistente nel promuovere e proteggere gli interessi del settore, nonché nell'istituire un contributo volontario obbligatorio («CVO»). Quest'ultimo è stato esteso con una clausola aggiuntiva e reso obbligatorio per tutti gli operatori del settore con decisione ministeriale.

Due imprese – Doux Élevage SNC e Coopérative agricole UKL-ARREE – assoggettate al versamento del CVO al pari degli altri operatori della filiera, hanno chiesto al Conseil d'État (Francia), l'annullamento della decisione ministeriale. Sostengono che il CVO, esteso e reso obbligatorio per tutti gli operatori aderenti all'organizzazione, costituisce aiuto di Stato e che, pertanto, tale decisione avrebbe dovuto essere preventivamente notificata alla Commissione.

Il Conseil d'État domanda alla Corte di giustizia se il CVO costituisca o meno aiuto di Stato.

Nelle sue conclusioni odierne, l'avvocato generale Melchior Wathelet propone alla Corte di rispondere nel senso che il CVO non può essere qualificato come aiuto di Stato, in difetto di due elementi cumulativamente richiesti: le «risorse statali» e l'«imputabilità delle misure allo Stato».

L'avvocato generale rileva innanzitutto che non sussistono dubbi sul fatto che un'

organizzazione interprofessionale agricola – come quella di cui al caso di specie – non può essere considerata come ente pubblico: si tratta di un'associazione di diritto privato, creata su iniziativa dei suoi membri, che decide autonomamente le proprie iniziative.

Successivamente, partendo dalla premessa secondo cui tale organizzazione interprofessionale agricola è esclusivamente finanziata dal

CVO, l'avvocato generale ritiene che tale contributo non può essere annoverato tra le «risorse statali» nel senso che esso non crea maggiori spese per lo Stato né per alcun altro ente pubblico. Infatti, il CVO proviene direttamente dagli operatori

economici attivi sul mercato in questione. Allo stesso modo, il CVO non rappresenta una risorsa che avrebbe dovuto essere versate al bilancio statale (come nel caso delle esenzioni fiscali). Lo Stato non ha dunque alcun diritto di rivendicare tali somme.

Infine,

le decisioni relative all'utilizzazione delle somme provenienti dal CVO non sono imputabili allo Stato
. Quest'ultimo non detiene il potere di influire sull'impiego delle somme e il suo ruolo si limita ad un semplice controllo a posteriori che gli permette di verificare che esse non siano state oggetto di frodi o abusi. In tal modo, lo Stato non fa altro che assumersi la propria responsabilità nei confronti delle imprese assoggettate al CVO, a causa della sua decisione di estendere gli effetti dell'accordo che istituisce tale contributo.

Infatti, secondo l'avvocato generale, la normativa francese ha messo in atto un «sistema chiuso»: nel senso che l'iniziativa appartiene sempre al settore privato, in quanto le somme in questione sono gestite e controllate da enti privati: esse sono pagate dagli operatori della filiera alle organizzazioni interprofessionali, le quali le impiegano per iniziative ritenute produttive di vantaggi per gli stessi operatori. In nessun momento tali somme ricadono sotto il controllo pubblico, in quanto lo Stato non dispone del potere di dirigere o di influenzare i tempi o i modi in cui le somme sono utilizzate. Peraltro, nessuna delle parti ha sostenuto che lo Stato abbia tentato di esercitare un'influenza determinante sulle attività delle organizzazioni interprofessionali e, in particolare, che le autorità pubbliche siano state coinvolte in qualche modo nell'adozione delle misure da parte di tali organizzazioni. Le autorità pubbliche agiscono dunque soltanto come semplice «strumento» per rendere obbligatori i contributi istituiti dalle organizzazioni interprofessionali per il perseguimento dei fini che esse stesse individuano.

Inoltre, dalla normativa francese non deriva che alle organizzazioni interprofessionali sia attribuito un reale ruolo pubblico, e ciò anche se esse perseguono interessi comuni a tutti gli attori del settore, fornendo evidentemente un contributo positivo all'attuazione delle politiche economiche nazionali e dell'Unione relative.

1 Articolo 107 TFUE.

Il vettore aereo deve prestare assistenza ai passeggeri il cui volo è stato cancellato a causa di circostanze eccezionali quali la chiusura dello spazio aereo a seguito dell’eruzione del vulcano Eyjafjallajökull - Sentenza nella causa C-12/11

Sentenza nella causa C-12/11

Denise McDonagh / Ryanair Ltd

Il vettore aereo deve prestare assistenza ai passeggeri il cui volo è stato cancellato a causa di circostanze eccezionali quali la chiusura dello spazio aereo a seguito dell'eruzione del vulcano Eyjafjallajökull

Il diritto dell'Unione non prevede limitazioni temporali o pecuniarie a tale obbligo di prestare assistenza ai passeggeri (alloggio, pasti, bevande)

In caso di cancellazione del volo, il vettore aereo è tenuto – in base al diritto dell'Unione

1– a prestare assistenza e a pagare una compensazione pecuniaria ai passeggeri. L'obbligo di prestare assistenza, impone poi al vettore aereo di fornire gratuitamente, tenuto conto della durata dell'attesa, bevande, pasti e, se del caso, una sistemazione in albergo, il trasporto dall'aeroporto al luogo della sistemazione, nonché la possibilità di comunicare con terzi. Il vettore è tenuto ad adempiere tale obbligo anche quando la cancellazione del volo è dovuta a circostanze eccezionali, vale a dire quelle che non si sarebbero potute evitare anche se fossero state adottate tutte le misure del caso. Il vettore può invece sottrarsi all'obbligo di compensazione pecuniaria, se dimostra che la cancellazione del volo è dovuta a tali circostanze eccezionali.

A seguito dell'eruzione del vulcano islandese Eyjafjallajökull, lo spazio aereo di diversi Stati membri – incluso lo spazio irlandese – è stato chiuso, tra il 15 e il 22 aprile 2010, a causa dei rischi corsi dagli aeromobili.

La sig.ra McDonagh era tra i passeggeri del volo Faro-Dublino, previsto per il 17 aprile 2010, ma cancellato a seguito dell'eruzione. I voli tra l'Irlanda e l'Europa continentale sono ripresi solo il 22 aprile e la sig.ra McDonagh ha potuto fare ritorno in Irlanda solo il 24 aprile. Durante questo periodo, la Ryanair non le ha prestato alcuna assistenza. Pertanto, essa ritiene che la compagnia aerea sia tenuta a rimborsarle un importo di EUR 1130 circa, somma pari alle spese da essa sostenute tra il 17 e il 24 aprile per pasti, bevande, sistemazione in albergo e trasporti.

La Dublin Metropolitan District Court (Irlanda), investita della controversia, chiede alla Corte di giustizia se la chiusura dello spazio aereo dovuta ad un'eruzione vulcanica rientri nella nozione di «circostanze eccezionali», che obbligano il vettore aereo a prestare assistenza ai passeggeri, oppure se sia da ricondurre a quelle circostanze che vanno al di là delle «circostanze eccezionali» e lo esimono dall'obbligo di prestare assistenza ai passeggeri. Inoltre, nell'ipotesi in cui la Corte riconosca che simili circostanze rientrano effettivamente nella nozione di «circostanze eccezionali», essa è invitata a anche a decidere se, in una situazione del genere, l'obbligo di prestare assistenza debba essere limitato sotto il profilo temporale e/o pecuniario.

La Corte risponde, innanzitutto, che il diritto dell'Unione non riconosce, al di là delle «circostanze eccezionali», una categoria distinta di eventi «particolarmente eccezionali» che comporti l'esonero del vettore aereo da tutti i propri obblighi derivanti dal regolamento, compreso quello di prestare assistenza. Infatti, se circostanze come quelle del caso di specie non rientrassero, a causa della loro origine e della loro entità, nell'ambito della nozione di «circostanze eccezionali», da ciò deriverebbe che i vettori aerei sarebbero tenuti a prestare l'assistenza prevista dal regolamento

soltanto ai passeggeri che si trovano, a causa della cancellazione del loro volo, in una situazione di disagio limitato. Di contro, i passeggeri che si trovino in una situazione di particolare bisogno in quanto costretti a rimanere per diversi giorni in un aeroporto, verrebbero privati di tale tutela. Di conseguenza, la Corte dichiara che

circostanze come la chiusura di una parte dello spazio europeo a seguito di un'eruzione vulcanica
come quella dell'Eyjafjallajökull costituiscono «circostanze eccezionali» che non esimono i vettori aerei dal loro obbligo di prestare assistenza.

Inoltre, precisa la Corte,

il regolamento non prevede alcuna limitazione, né di natura temporale né di natura pecuniaria, all'obbligo di prestare assistenza ai passeggeri, vittime di una cancellazione del volo per circostanze eccezionali. Dunque, il complesso degli obblighi di assistenza ai passeggeri grava sul vettore aereo per tutto il periodo durante il quale i passeggeri in questione devono attendere di poter proseguire il viaggio. La Corte sottolinea che l'assistenza ai passeggeri risulta particolarmente importante quando si verificano «circostanze eccezionali» che perdurano nel tempo e che è proprio nel caso in cui l'attesa dovuta alla cancellazione di un volo è particolarmente lunga che risulta necessario assicurarsi che il passeggero abbia accesso ai prodotti e ai servizi di prima necessità, per tutta la durata dell'attesa.

Infine, la Corte rileva che, sebbene l'obbligo di prestare assistenza comporti per i vettori aerei conseguenze economiche, queste non possono essere considerate sproporzionate rispetto allo scopo di elevata tutela dei passeggeri. Infatti, l'importanza di tale scopo è tale da giustificare conseguenze economiche negative, anche considerevoli, per taluni operatori economici. Peraltro, i vettori aerei dovrebbero, in quanto operatori accorti, prevedere i costi legati all'adempimento del loro obbligo di prestare assistenza. Inoltre, essi sono liberi di scaricare i costi derivanti da tale obbligo sul prezzo dei biglietti aerei.

Peraltro, la Corte sottolinea che, quando il vettore aereo non ha adempiuto il suo obbligo di prestare assistenza ad un passeggero, quest'ultimo può ottenere, a titolo di
compensazione pecuniaria, soltanto il rimborso delle somme che risultino necessarie, appropriate e ragionevoli al fine di ovviare all'omissione del vettore aereo, il che deve essere valutato dal giudice nazionale.

1 Regolamento (CE) n. 261/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio, dell'11 febbraio 2004, che istituisce regole comuni in materia di compensazione ed assistenza ai passeggeri in caso di negato imbarco, di cancellazione del volo o di ritardo prolungato (GU L 46, pag. 1)

Il diritto dell’unione fissa limiti al diritto esclusivo concesso alla società per azioni OPAP di organizzare e gestire giochi d’azzardo in Grecia - Sentenza nelle cause riunite C-186/11 e 209/11

Sentenza nelle cause riunite C-186/11 e 209/11

Stanleybet International Ltd, William Hill Organization Ltd, William Hill Plc e Sportingbet Plc / Ypourgos Oikonomias kai Oikonomikon, Ypourgos Politismou, con l'intervento dell'Organismos prognostikon agonon podosfairou AE (OPAP)

 
Il diritto dell'unione fissa limiti al diritto esclusivo concesso alla società per azioni OPAP di organizzare e gestire giochi d'azzardo in Grecia

Se tuttavia lo Stato ritiene che la liberalizzazione di tale mercato non sia compatibile con il livello di tutela dei consumatori e dell'ordine sociale che intende assicurare, può limitarsi a riformare il monopolio, assoggettandolo, in particolare, ad un controllo stretto ed effettivo

In Grecia, l'organizzazione e la gestione dei giochi d'azzardo e delle schedine per scommesse sono assegnate per un periodo di venti anni – ovvero fino al 2020 – alla società per azioni OPAP (Organismos prognostikon agonon podosfairou – Ente pronostici sulle partite di calcio), quotata alla Borsa di Atene. Lo Stato greco approva i regolamenti riguardanti le attività dell'OPAP e vigila sulla procedura di svolgimento dei giochi, pur essendo attualmente azionista di minoranza (34 %). L'OPAP fissa l'importo massimo delle scommesse e delle vincite per schedina (e non per giocatore) e ha il diritto di utilizzare gratuitamente fino al 10 % degli spazi pubblicitari negli stadi e nelle palestre. Esso ha altresì esteso le sue attività all'estero, in particolare a Cipro.

Le società Stanleybet, William Hill e Sportingbet hanno sede nel Regno Unito, dove sono autorizzate ad organizzare i giochi d'azzardo conformemente alla normativa inglese.

Esse hanno agito dinanzi al Symvoulio tis Epikrateias (Consiglio di Stato, Grecia) contro i rifiuti taciti delle autorità greche di concedere loro l'autorizzazione ad organizzare in Grecia scommesse sportive.

Il giudice greco ha quindi chiesto alla Corte di giustizia se il diritto dell'Unione e in particolare i principi sulle libertà fondamentali (di stabilimento e di prestazione di servizi) ostino alla normativa nazionale che concede ad un organismo unico il diritto esclusivo di gestione dei giochi d'azzardo. Esso osserva che, sebbene l'obiettivo della normativa nazionale consista nel limitare l'offerta dei giochi e nel favorire la lotta alla criminalità ad essi connessa, l'OPAP persegue una politica commerciale espansionistica.

La Corte, nella sua sentenza odierna, rileva anzitutto che la normativa nazionale che sancisce il monopolio dell'OPAP e vieta ai concorrenti stabiliti in un altro Stato membro di offrire gli stessi giochi nel territorio greco comporta una restrizione alla libera prestazione dei servizi o alla libertà di stabilimento. Essa verifica quindi se una restrizione siffatta possa essere ammessa a titolo derogatorio, per motivi di ordine pubblico, di pubblica sicurezza, di sanità pubblica o per ragioni imperative di interesse generale.

La Corte ricorda inoltre che la disciplina dei giochi d'azzardo rientra nei settori in cui sussistono tra gli Stati membri divergenze considerevoli di ordine morale, religioso e culturale e, in assenza di armonizzazione comunitaria, ogni Stato membro deve valutare, alla luce della propria scala di valori, le esigenze che la tutela degli interessi in gioco implica. Pertanto, come già riconosciuto dalla sua giurisprudenza, la limitazione dell'offerta dei giochi d'azzardo e la lotta alla criminalità ad essi connessa possono giustificare restrizioni alle libertà fondamentali.

La Corte sottolinea, tuttavia, che le restrizioni imposte dagli Stati membri devono soddisfare le condizioni di proporzionalità e di non discriminazione, garantendo al contempo effettivamente la realizzazione degli obiettivi addotti,in modo coerente e sistematico.

Spetta pertanto al giudice nazionale verificare che la normativa nazionale persegua effettivamente l'obiettivo di ridurre le occasioni di gioco d'azzardo e di lottare contro la criminalità connessa a tali giochi.

Cionondimeno, la Corte suggerisce al giudice nazionale di tener conto, riguardo al primo obiettivo, dei diversi elementi del quadro normativo e del funzionamento pratico dell'OPAP, quali i diritti e i privilegi di cui esso dispone per la pubblicità dei giochi e la fissazione della scommessa massima per schedina (e non per giocatore). Quanto al secondo obiettivo, il giudice nazionale dovrà verificare che il controllo statale sia effettivamente attuato, tenendo conto del fatto che una misura tanto restrittiva come un monopolio deve essere soggetta ad uno stretto controllo, mentre l'OPAP, società per azioni quotata in Borsa, sarebbe sottoposto a vigilanza solo superficiale dello Stato greco.

Di conseguenza, la Corte risponde che

il diritto dell'Unione osta ad una normativa nazionale che concede il monopolio sui giochi d'azzardo ad un organismo unico, senza ridurre realmente le occasioni di gioco, qualora, da un lato, essa non limiti le attività in tale settore in modo coerente e sistematico e, dall'altro, non garantisca uno stretto controllo sull'espansione dei giochi d'azzardo, soltanto nella misura necessaria alla lotta alla criminalità
.

Inoltre, la Corte precisa che, per effetto del primato del diritto dell'Unione direttamente applicabile, una normativa nazionale che comporti restrizioni incompatibili con la libertà di stabilimento e la libera prestazione dei servizi non può continuare ad applicarsi per un periodo transitorio, nel corso del quale, di conseguenza,

le autorità nazionali non possono astenersi dall'esaminare le domande di autorizzazione.

In questa situazione di incompatibilità, lo Stato greco ha due possibilità.

Se dovesse ritenere che la liberalizzazione del mercato dei giochi d'azzardo non sia compatibile con il livello di tutela dei consumatori e dell'ordine sociale che esso intende assicurare, lo Stato potrebbe limitarsi a

riformare il monopolio e ad assoggettarlo ad un effettivo e stretto controllo da parte delle autorità pubbliche.

Per contro, se lo Stato dovesse optare per la liberalizzazione del mercato – cui non è necessariamente obbligato dal diritto dell'Unione – esso dovrà rispettare i principi di parità di trattamento e di non discriminazione in base alla nazionalità, nonché l'obbligo di trasparenza.

L'istituzione di un regime di previa autorizzazione amministrativa dovrà quindi essere fondata su criteri oggettivi e non discriminatori, per evitare che il potere discrezionale delle autorità nazionali possa essere utilizzato in modo arbitrario.