lunedì 16 novembre 2009

In materia fiscale il diritto comunitario prevale sul giudicato interno

Corte di Giustizia dell'Unione Europea, sez. II

Sentenza del 3 settembre 2009

(Pres. Timmermans , Est. Schiemann)


1 La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’applicazione del principio dell’autorità di cosa giudicata in un contenzioso in materia di imposta sul valore aggiunto (in prosieguo: l’«IVA»).

2 Questa domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra la Fallimento *** (in prosieguo: ***) e l’Amministrazione dell’Economia e delle Finanze (in prosieguo: l’«amministrazione fiscale») vertente su quattro avvisi di rettifica in materia di IVA inviati all’*** per le annualità fiscali 1988‑1991.


Normativa nazionale



3 L’art. 2909 del codice civile italiano, intitolato «Cosa giudicata», dispone quanto segue:

«L’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato ad ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa».

4 Tale articolo è stato interpretato dalla Corte suprema di cassazione nella sua sentenza n. 13916/06 nei termini seguenti:

«(...) Qualora due giudizi tra le stesse parti abbiano riferimento al medesimo rapporto giuridico, ed uno di essi sia stato definito con sentenza passata in giudicato, l’accertamento così compiuto in ordine alla situazione giuridica ovvero alla soluzione di questioni di fatto e di diritto relative ad un punto fondamentale comune ad entrambe la cause, formando la premessa logica indispensabile della statuizione contenuta nel dispositivo della sentenza, preclude il riesame dello stesso punto di diritto accertato e risolto, anche se il successivo giudizio abbia finalità diverse da quelle che hanno costituito lo scopo ed il “petitum” del primo».


Causa principale e questione pregiudiziale



5 L’***, società a responsabilità limitata il cui oggetto sociale è la costruzione e la gestione di infrastrutture sportive, è proprietaria di un complesso di attrezzature sportive ubicate su un terreno di proprietà del demanio dello Stato italiano. Il 27 dicembre 1985 essa ha stipulato con l’Associazione Polisportiva *** (in prosieguo: l’«Associazione»), associazione non avente scopo di lucro, i cui membri fondatori coincidevano per la maggior parte con i detentori delle quote sociali dell’***, un contratto che consentiva all’Associazione di usare tutte le attrezzature del complesso sportivo (in prosieguo: il «comodato»). A titolo di corrispettivo, l’Associazione doveva, in primo luogo, assumere a proprio carico il pagamento allo Stato italiano del canone demaniale (somma da versare ogni anno a titolo della concessione in uso del terreno), in secondo luogo, versare ogni anno ITL 5 milioni a titolo di rimborso delle spese forfettarie annuali e, in terzo luogo, trasferire all’*** tutte le entrate lorde dell’Associazione, consistenti nell’ammontare complessivo delle quote associative annuali versate dai suoi soci.




6 Nel 1992, l’amministrazione fiscale ha effettuato verifiche concernenti detto comodato ed è giunta alla conclusione che le parti di tale contratto, mediante un atto formalmente lecito, avevano perseguito, in realtà, esclusivamente il fine di eludere la legge per conseguire un vantaggio fiscale. Così, l’*** avrebbe trasferito ad un’associazione non avente fini di lucro tutte le incombenze amministrative e gestionali del complesso sportivo interessato, pur beneficiando del reddito prodotto da tale associazione sotto forma di quote associative versate dai membri della medesima e, a tale titolo, non soggetto ad IVA. Avendo pertanto considerato che il contratto di comodato era inopponibile, l’amministrazione fiscale ha attribuito all’*** tutto il reddito lordo prodotto dall’Associazione durante gli anni oggetto del controllo fiscale e ha rettificato, di conseguenza, con quattro avvisi di rettifica, le dichiarazioni dell’IVA presentate dall’*** per le annualità fiscali 1988‑1991.




7 L’*** ha proposto un ricorso avverso tali avvisi di rettifica dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di primo grado di Roma la quale ha accolto tale ricorso, dichiarando che l’amministrazione fiscale aveva erroneamente posto nel nulla gli effetti giuridici del contratto di comodato, poiché non aveva dimostrato l’esistenza di un accordo fraudolento.




8 L’amministrazione fiscale ha interposto appello avverso tale decisione dinanzi alla Commissione tributaria regionale del Lazio, la quale l’ha confermata. Secondo tale giudice, l’amministrazione fiscale non aveva dimostrato l’esistenza di un intento fraudolento delle due parti che avevano stipulato il comodato, posto che le ragioni che le avevano indotte a stipularlo potevano legittimamente essere individuate nell’antieconomicità della gestione diretta di attività essenzialmente sportive da parte di una società commerciale.




9 L’amministrazione fiscale ha proposto un ricorso per cassazione avverso tale ultima decisione dinanzi al giudice del rinvio. Intervenuto, nelle more, il fallimento dell’***, il curatore fallimentare si è costituito in giudizio nel procedimento per cassazione in qualità di resistente.




10 Nell’ambito di tale procedimento, il curatore ha fatto valere due sentenze della Commissione tributaria regionale del Lazio passate in giudicato e aventi ad oggetto avvisi di rettifica in materia di IVA redatti in seguito al medesimo controllo fiscale riguardante l’***, ma concernenti altre annualità fiscali, vale a dire le sentenze nn. 138/43/00 e 67/01/03, relative, rispettivamente, alle annualità fiscali 1992 e 1987.




11 Anche se tali sentenze si riferivano a periodi d’imposta diversi, gli accertamenti ivi operati nonché la soluzione adottata sarebbero diventati vincolanti nella causa principale, in virtù dell’art. 2909 del codice civile che sancisce il principio dell’autorità di cosa giudicata.




12 Risulta dalla decisione di rinvio che, in materia fiscale, i giudici italiani, interpretando l’art. 2909 del codice civile, sono restati a lungo ancorati al cosiddetto principio della frammentazione dei giudicati, in base al quale ogni annualità fiscale conserva la propria autonomia rispetto alle altre ed è oggetto, tra contribuente e fisco, di un rapporto giuridico distinto rispetto a quelli relativi alle annualità precedenti e successive, per cui, qualora le controversie vertenti su annualità diverse di una medesima imposta (pur riguardando questioni analoghe) siano decise con sentenze separate, ciascuna controversia conserva la propria autonomia e la decisione che vi pone fine non ha alcuna autorità di giudicato nei confronti delle controversie afferenti ad altre annualità fiscali.




13 Tuttavia, tale impostazione sarebbe stata recentemente modificata, in particolare per l’abbandono del principio della frammentazione dei giudicati. Ormai la soluzione derivante da una sentenza pronunciata in una controversia, quando gli accertamenti che vi si riferiscono riguardano questioni analoghe, può essere utilmente invocata in un’altra controversia, benché detta sentenza sia relativa ad un periodo d’imposta diverso da quello che costituisce l’oggetto del procedimento in cui è stata invocata.




14 Poiché le due sentenze menzionate al punto 10 della presente sentenza hanno accertato l’esistenza di validi motivi economici che giustificavano la stipulazione di un contratto di comodato tra l’Associazione e l’***, ed erano dunque favorevoli a quest’ultima, la convenuta nella causa principale ha sostenuto che il ricorso per cassazione deve essere dichiarato irricevibile in quanto è diretto a far statuire di nuovo sulle medesime questioni di diritto e di fatto.




15 È alla luce di tali elementi che il giudice del rinvio si considera vincolato da dette sentenze che attestano definitivamente il carattere reale, lecito e non fraudolento del comodato. Tuttavia, esso rileva che ciò potrebbe tradursi nella sua impossibilità di esaminare la causa principale alla luce della normativa comunitaria e della giurisprudenza della Corte in materia di IVA, in particolare della sentenza 21 febbraio 2006, causa C‑255/02, Halifax e a. (Racc. pag. I‑1609) e, eventualmente, di accertare l’esistenza di un abuso di diritto.




16 Il giudice del rinvio fa particolare riferimento alla sentenza 18 luglio 2007, causa C‑119/05, Lucchini (Racc. pag. I‑6199) in cui la Corte ha affermato che il diritto comunitario osta all’applicazione di una disposizione del diritto nazionale, come l’art. 2909 del codice civile, volta a sancire il principio dell’autorità di cosa giudicata, nei limiti in cui l’applicazione di tale disposizione impedisce il recupero di un aiuto di Stato erogato in contrasto con il diritto comunitario. Esso osserva che tale sentenza sembra illustrare una certa tendenza nella giurisprudenza della Corte a relativizzare il valore del giudicato nazionale e a esigere di non tener conto di tale giudicato al fine di rispettare il primato delle disposizioni del diritto comunitario ed evitare un conflitto con le medesime. Il giudice del rinvio si riferisce a tal proposito alle sentenze 1° giugno 1999, causa C‑126/97, Eco Swiss (Racc. pag. I‑3055); 28 giugno 2001, causa C‑118/00, Larsy (Racc. pag. I‑5063); 7 gennaio 2004, causa C‑201/02, Wells (Racc. pag. I‑723), nonché 13 gennaio 2004, causa C‑453/00, Kühne & Heitz (Racc. pag. I‑837).




17 Poiché la riscossione dell’IVA svolge un ruolo importante nella costituzione delle risorse proprie della Comunità europea, il giudice del rinvio si chiede se la giurisprudenza della Corte esiga che non sia riconosciuto carattere vincolante ad una sentenza nazionale che ha acquisito, in virtù del diritto interno, autorità di cosa giudicata. Nella causa principale, l’applicazione dell’art. 2909 del codice civile potrebbe impedire la piena attuazione del principio della lotta all’abuso di diritto, elaborato dalla giurisprudenza della Corte in materia di IVA quale strumento diretto a garantire la piena applicazione del regime comunitario dell’IVA, riferendosi tale giudice, a questo riguardo, alla citata sentenza Halifax e a..




18 In tale contesto, la Corte suprema di cassazione ha deciso di sospendere il giudizio e di sottoporre alla Corte la seguente questione pregiudiziale:




«Se il diritto comunitario osti all’applicazione di una disposizione del diritto nazionale, come quella di cui all’art. 2909 [del codice civile], tesa a sancire il principio dell’autorità di cosa giudicata, quando tale applicazione venga a consacrare un risultato contrastante con il diritto comunitario, frustrandone l’applicazione, anche in settori diversi da quello degli aiuti di Stato (per cui, v. [sentenza] (...) Lucchini [citata]) e, segnatamente, in materia di IVA e di abuso di diritto posto in essere per conseguire indebiti risparmi d’imposta, avuto, in particolare, riguardo anche al criterio di diritto nazionale, così come interpretato dalla giurisprudenza d[ella Corte suprema di cassazione], secondo cui, nelle controversie tributarie, il giudicato esterno, qualora l’accertamento consacrato concerna un punto fondamentale comune ad altre cause, esplica, rispetto a questo, efficacia vincolante anche se formatosi in relazione ad un diverso periodo d’imposta».


Sulla questione pregiudiziale



19 Il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se il diritto comunitario osti all’applicazione, in circostanze come quelle della causa principale, di una disposizione di diritto nazionale, come l’art. 2909 del codice civile, in una controversia vertente sull’IVA afferente ad un’annualità fiscale per la quale non si è ancora avuta una sentenza definitiva, nel caso in cui la disposizione di cui trattasi impedisca a tale giudice di prendere in considerazione le norme di diritto comunitario in materia di pratiche abusive legate a detta imposta.

20 Occorre innanzitutto sottolineare che, per risolvere tale questione, è irrilevante che il giudice del rinvio non abbia esposto in modo dettagliato le ragioni per cui si potrebbe dubitare del carattere reale, lecito e non fraudolento del comodato.

21 L’*** ha fatto valere il principio dell’autorità di cosa giudicata, come interpretato nell’ordinamento giuridico italiano e descritto al punto 13 della presente sentenza, per sostenere che l’accertamento del carattere reale, lecito e non fraudolento del comodato, contenuto nelle sentenze anteriori relative a periodi d’imposta diversi, ha carattere vincolante e definitivo.

22 A tal riguardo, occorre rammentare l’importanza che il principio dell’autorità di cosa giudicata riveste sia nell’ordinamento giuridico comunitario sia negli ordinamenti giuridici nazionali. Infatti, al fine di garantire sia la stabilità del diritto e dei rapporti giuridici, sia una buona amministrazione della giustizia, è importante che le decisioni giurisdizionali divenute definitive dopo l’esaurimento delle vie di ricorso disponibili o dopo la scadenza dei termini previsti per questi ricorsi non possano più essere rimesse in discussione (sentenza 30 settembre 2003, causa C‑224/01, Köbler, Racc. pag. I‑10239, punto 38, e 16 marzo 2006, causa C‑234/04, Kapferer, Racc. pag. I‑2585, punto 20).

23 Ne consegue che il diritto comunitario non impone ad un giudice nazionale di disapplicare le norme processuali interne che attribuiscono autorità di cosa giudicata ad una decisione, anche quando ciò permetterebbe di porre rimedio ad una violazione del diritto comunitario da parte di tale decisione (v. sentenza Kapferer, cit., punto 21).

24 In assenza di una normativa comunitaria in materia, le modalità di attuazione del principio dell’autorità di cosa giudicata rientrano nell’ordinamento giuridico interno degli Stati membri in virtù del principio dell’autonomia procedurale di questi ultimi. Esse non devono tuttavia essere meno favorevoli di quelle che riguardano situazioni analoghe di natura interna (principio di equivalenza) né essere strutturate in modo da rendere in pratica impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario (principio di effettività) (v., in tal senso, sentenza Kapferer, cit., punto 22).

25 La citata sentenza Lucchini non è atta a rimettere in discussione l’analisi sopra svolta. Infatti, tale sentenza riguardava una situazione del tutto particolare in cui erano in questione principi che disciplinano la ripartizione delle competenze tra gli Stati membri e la Comunità in materia di aiuti di Stato, posto che la Commissione delle Comunità europee dispone di una competenza esclusiva per esaminare la compatibilità di una misura nazionale di aiuti di Stato con il mercato comune (v., in tal senso, sentenza Lucchini, cit., punti 52 e 62). La presente causa non solleva siffatte questioni di ripartizione delle competenze.

26 Nella fattispecie si pone, più in particolare, la questione se l’interpretazione del principio dell’autorità di cosa giudicata cui fa riferimento il giudice del rinvio, secondo cui, nelle controversie in materia fiscale, la cosa giudicata in una determinata causa, in quanto verte su un punto fondamentale comune ad altre cause, ha, su tale punto, una portata vincolante, anche se gli accertamenti operati in tale occasione si riferiscono ad un periodo d’imposta diverso, sia compatibile con il principio di effettività.

27 A tal riguardo, occorre ricordare che la Corte ha già affermato che ciascun caso in cui si pone la questione se una norma processuale nazionale renda impossibile o eccessivamente difficile l’applicazione del diritto comunitario dev’essere esaminato tenendo conto del ruolo di detta norma nell’insieme del procedimento, dello svolgimento e delle peculiarità dello stesso, dinanzi ai vari organi giurisdizionali nazionali. Sotto tale profilo si devono considerare, se necessario, i principi che sono alla base del sistema giurisdizionale nazionale, quali la tutela dei diritti della difesa, il principio della certezza del diritto e il regolare svolgimento del procedimento (sentenza 14 dicembre 1995, causa C‑312/93, Peterbroeck, Racc. pag. I‑4599, punto 14).

28 Occorre dunque esaminare più in particolare se l’interpretazione soprammenzionata dell’art. 2909 del codice civile possa essere giustificata alla luce della salvaguardia del principio della certezza del diritto, tenuto conto delle conseguenze che ne derivano per l’applicazione del diritto comunitario.

29 A tal riguardo occorre constatare, come fa peraltro lo stesso giudice del rinvio, che detta interpretazione non solo impedisce di rimettere in questione una decisione giurisdizionale che abbia acquistato efficacia di giudicato, anche se tale decisione comporti una violazione del diritto comunitario, ma impedisce del pari di rimettere in questione, in occasione di un controllo giurisdizionale relativo ad un’altra decisione dell’autorità fiscale competente concernente il medesimo contribuente o soggetto passivo, ma un esercizio fiscale diverso, qualsiasi accertamento vertente su un punto fondamentale comune contenuto in una decisione giurisdizionale che abbia acquistato efficacia di giudicato.

30 Una siffatta applicazione del principio dell’autorità di cosa giudicata avrebbe dunque la conseguenza che, laddove la decisione giurisdizionale divenuta definitiva sia fondata su un’interpretazione delle norme comunitarie relative a pratiche abusive in materia di IVA in contrasto con il diritto comunitario, la non corretta applicazione di tali regole si riprodurrebbe per ciascun nuovo esercizio fiscale, senza che sia possibile correggere tale erronea interpretazione.

31 Ciò premesso, va concluso che ostacoli di tale portata all’applicazione effettiva delle norme comunitarie in materia di IVA non possono essere ragionevolmente giustificati dal principio della certezza del diritto e devono essere dunque considerati in contrasto con il principio di effettività.

32 Di conseguenza, occorre risolvere la questione proposta nel senso che il diritto comunitario osta all’applicazione, in circostanze come quelle della causa principale, di una disposizione del diritto nazionale, come l’art. 2909 del codice civile, in una causa vertente sull’IVA concernente un’annualità fiscale per la quale non si è ancora avuta una decisione giurisdizionale definitiva, in quanto essa impedirebbe al giudice nazionale investito di tale causa di prendere in considerazione le norme comunitarie in materia di pratiche abusive legate a detta imposta.


Sulle spese

33 Nei confronti delle parti nella causa principale il presente procedimento costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione.

Per questi motivi, la Corte (Seconda Sezione) dichiara:



Il diritto comunitario osta all’applicazione, in circostanze come quelle della causa principale, di una disposizione del diritto nazionale, come l’art. 2909 del codice civile, in una causa vertente sull’imposta sul valore aggiunto concernente un’annualità fiscale per la quale non si è ancora avuta una decisione giurisdizionale definitiva, in quanto essa impedirebbe al giudice nazionale investito di tale causa di prendere in considerazione le norme comunitarie in materia di pratiche abusive legate a detta imposta.

giovedì 22 ottobre 2009

DIRITTO AD UN EQUO PROCESSO - CONDANNA FONDATA SU PROVE IRREGOLARMENTE RACCOLTE NEL CORSO DI INDAGINI DI POLIZIA - NON VIOLAZIONE

(LEE DAVIES C. BELGIO) DIRITTO AD UN EQUO PROCESSO - CONDANNA FONDATA SU PROVE IRREGOLARMENTE RACCOLTE NEL CORSO DI INDAGINI DI POLIZIA - NON VIOLAZIONE
Il ricorrente, nel corso di una operazione di polizia, fu sorpreso in possesso di sostanze stupefacenti e, nonostante avesse contestato la regolarità della perquisizione, è stato condannato per possesso illecito di droga. La Corte europea, alla quale costui si è rivolto, lamentando la violazione delle garanzie dell’equo processo, ha respinto il ricorso. La Corte ha premesso che per stabilire l’equità del processo è determinante verificare il rispetto dei diritti di difesa. Nel caso di specie, il ricorrente aveva avuto la possibilità di contestare davanti a tre gradi di giudizio gli elementi di prova raccolti e opporsi alla loro utilizzazione probatoria.

Testo Completo: Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo di Strasburgo del 28 luglio 2009

DEUXIÈME SECTION AFFAIRE LEE DAVIES c. BELGIQUE (Requête no 18704/05)

ARRÊT STRASBOURG 28 juillet 2009

Cet arrêt deviendra définitif dans les conditions définies à l'article 44 § 2 de la Convention. Il peut subir des retouches de forme.

En l'affaire Lee Davies c. Belgique,

La Cour européenne des droits de l'homme (deuxième section), siégeant en une chambre composée de :

Ireneu Cabral Barreto, président,

Françoise Tulkens,

Vladimiro Zagrebelsky,

Danutė Jočienė,

Dragoljub Popović,

András Sajó,

Işıl Karakaş, juges,

Françoise Elens-Passos, greffière adjointe de section,

Après en avoir délibéré en chambre du conseil le 7 juillet 2009,

Rend l'arrêt que voici, adopté à cette date :

PROCÉDURE

1. A l'origine de l'affaire se trouve une requête (no 18704/05) dirigée contre le Royaume de Belgique et dont un ressortissant britannique, M. Lee Martin Davies (« le requérant »), a saisi la Cour le 16 mai 2005 en vertu de l'article 34 de la Convention de sauvegarde des droits de l'homme et des Libertés fondamentales (« la Convention »).

2. Le requérant est représenté par Me H. Rieder, avocat à Gand. Le gouvernement belge (« le Gouvernement ») était représenté par son agent, M. C. Debrulle, Directeur du Service public fédéral de la Justice. Informé de son droit de prendre part à la procédure (articles 36 § 1 de la Convention et 44 § 1 du règlement), le gouvernement britannique a déclaré ne pas souhaiter intervenir dans la procédure.

3. Le requérant alléguait en particulier une violation de l'article 6 § 1 de la Convention, en raison du fait que les éléments de preuve ayant servi de base aux poursuites engagées contre lui avaient été recueillies de manière irrégulière.

4. Le 29 août 2006, la Cour a décidé de communiquer le grief tiré de l'article 6 § 1 au Gouvernement. Se prévalant des dispositions de l'article 29 § 3, elle a décidé que seraient examinés en même temps la recevabilité et le bien-fondé de l'affaire.

EN FAIT

I. LES CIRCONSTANCES DE L'ESPÈCE

5. Le requérant est né en 1959 et réside à Bobbing Hill Sittingbourne, dans le Kent, en Grande-Bretagne. Il exerce la profession de marchand d'antiquités.

6. Le 26 novembre 1998, la police de Furnes effectua un contrôle sur un terrain industriel. Ce terrain, qui s'avéra par la suite être loué par K. par l'intermédiaire de sa société, était clôturé et uniquement accessible par une porte individuelle, qui était ouverte. Il se composait de plusieurs baraques et d'un bâtiment principal comportant des sanitaires et un bureau. En faisant le tour du terrain, les policiers aperçurent deux personnes en train de charger des caisses dans un camion immatriculé en Grande-Bretagne. Ils tentèrent sans succès de joindre le responsable du centre industriel afin de savoir si le terrain faisait l'objet d'une location et décidèrent alors d'aller voir de plus près ce qui s'y passait. Lorsque les policiers se furent rapprochés, une seule personne, B. (qui s'avéra par la suite être le chauffeur du camion), se trouvait encore à côté du véhicule et prétendit ne pas connaître la seconde personne, ni savoir ce que les cartons contenaient. A la recherche de cette dernière, les policiers pénétrèrent dans une des baraques attenantes au bâtiment principal et y trouvèrent de nombreuses caisses ainsi qu'une voiture immatriculée en France, dont le moteur était encore chaud. Ils ouvrirent une des boîtes et constatèrent qu'elle comportait des paquets de tabac. La porte séparant la baraque du bâtiment principal était fermée mais les policiers trouvèrent une clé dans une veste et y pénétrèrent. Ils y trouvèrent K., ainsi que le requérant, dans les toilettes. Devant le refus des deux intéressés de révéler le contenu des cartons se trouvant à l'arrière de la voiture, les policiers demandèrent au requérant d'en ouvrir un. Ils constatèrent qu'il contenait du cannabis. Ils découvrirent en tout 25 paquets de marijuana et 25 paquets de 225 grammes de haschich.

7. Par la suite, un chien policier réagit en reniflant la voiture immatriculée en France. L'enquête permit de déterminer que cette voiture avait été achetée par G. à la demande du requérant et grâce à l'argent de ce dernier, qui en possédait une clé. Selon G., l'intention du requérant était de ne pas attirer l'attention en circulant avec une voiture immatriculée en Grande-Bretagne. G. avait par ailleurs acheté de grandes quantités de tabac au Luxembourg.

8. L'enquête établit que K. avait fait appel à un ami, R., pour le transport de la marchandise et que ce dernier avait engagé B. comme chauffeur. Une information policière émanant de Grande-Bretagne laissa apparaître que R. y était soupçonné de trafic de drogues et de recel de biens volés.

9. Le requérant et K. furent poursuivis, en qualité de co-auteurs, pour des faits de trafic de stupéfiants avec association de malfaiteurs.

10. Par un arrêt du 29 mai 2001, le tribunal correctionnel de Furnes acquitta les prévenus au motif que les preuves avaient été obtenues de manière illicite.

11. Le ministère public interjeta appel et fit valoir que les policiers avaient agi dans le cadre de la loi du 5 août 1992 sur la fonction de police selon laquelle les fonctionnaires de police peuvent toujours pénétrer dans les « lieux accessibles au public » ainsi que dans les « biens immeubles abandonnés », afin de veiller au maintien de l'ordre public et au respect des lois et des règlements de police (article 26 de la loi de la loi du 5 août 1992). Le ministère public se prévalut également de la loi du 6 juillet 1976 sur la répression du travail frauduleux à caractère commercial ou artisanal qui attribue aux policiers des compétences en cas de flagrant délit.

12. Dans ses conclusions, le requérant fit valoir que les poursuites étaient nulles au motif qu'elles reposaient sur des éléments de preuves irréguliers car trouvant leur source dans une perquisition illégale. Selon le requérant, les lieux en cause devaient être considérés comme son « domicile » au sens de l'article 8 de la Convention et non comme un « bien immeuble abandonné » ou un « lieu accessible au public ». Il contesta également l'existence d'un flagrant délit.

13. Par un arrêt du 16 juin 2004, la cour d'appel de Gand condamna le requérant à une peine d'emprisonnement de deux ans, dont un avec sursis, et à une amende de 9 916 euros.

14. La cour d'appel effectua une distinction entre les différents lieux visités par les policiers, soit, d'une part, le terrain clôturé qui entoure les bâtiments du complexe industriel et, d'autre part, le hangar no 2 de ce complexe et le bâtiment principal. En ce qui concerne le premier, la cour d'appel jugea qu'il constituait un lieu accessible au public. Par conséquent, les policiers avaient régulièrement agi lorsqu'ils étaient intervenus autour des bâtiments, lorsqu'ils avaient aperçu les deux personnes occupées à charger le camion, et enfin lorsqu'ils avaient interpellé le chauffeur et avaient constaté que la deuxième personne avait disparu et que la lumière du hangar no 2 était éteinte. Elle examina ensuite si les policiers avaient régulièrement agi en pénétrant dans le hangar et le bâtiment commun. Or ces bâtiments ne constituaient pas un domicile au sens de l'article 15 de la Constitution. La cour d'appel estima, par contre, que ces bâtiments ne pouvaient pas être considérés comme « accessibles au public », au sens de l'article 26 de la loi du 5 août 1992 sur la fonction de police dès lors que le hangar no 2 n'était accessible que par une porte individuelle. Il importait peu que la porte ait été ouverte ou non au moment de l'arrivée des policiers. Il en allait d'autant plus ainsi en ce qui concernait le bâtiment principal fermé à clef. La cour d'appel jugea également que ces lieux ne pouvaient être considérés comme des « biens immeubles abandonnés » au sens de la même loi.

15. La cour d'appel rejeta l'argument du ministère public selon lequel la perquisition aurait été légalement fondée sur l'article 3 de la loi du 6 juillet 1976 sur la répression du travail frauduleux à caractère commercial ou artisanal. Elle conclut que la perquisition du hangar no 2 et du bâtiment principal était irrégulière.

16. Constatant que la loi n'attachait aucune sanction spécifique à ces irrégularités, la cour d'appel jugea, qu'en l'espèce, les irrégularités ayant conduit à la découverte des faits n'avaient pas eu de conséquence quant à la valeur des éléments de preuve recueillis. Les prévenus avaient pu exercer leurs droits de la défense dans le respect du principe du contradictoire. Partant, les éléments recueillis, les constatations faites et l'enquête qui s'ensuivit n'avaient pas eu d'incidence sur leur droit à un procès équitable.
17. Enfin, la cour d'appel précisa que les faits commis en l'espèce constituaient des infractions qui entachaient gravement l'ordre juridique – d'une gravité telle qu'ils dépassaient de loin les irrégularités alléguées, vu que ces méfaits, commis dans un pur but de lucre, avaient conduit à un trafic important de produits stupéfiants, qui portait gravement atteinte à la santé des consommateurs, à l'ordre social et à la sécurité, alors que – malgré les irrégularités commises dans l'obtention de la preuve – les droits visés à l'article 8 de la Convention avaient, d'une manière ou d'une autre, été respectés.

18. Le requérant se pourvut en cassation contre cet arrêt.

19. Il invoqua notamment la violation des articles 6 et 8 de la Convention et fit valoir la même argumentation que celle développée dans le cadre de la présente requête.

20. Par un arrêt du 16 novembre 2004, la Cour de cassation rejeta le pourvoi notamment dans les termes suivants :

« Attendu qu'il ne résulte ni de l'article 6 de la Convention de sauvegarde des droits de l'homme et des libertés fondamentales, qui garantit un procès équitable, ni de l'article 8 de cette Convention, qui consacre le droit au respect de la vie privée et familiale, du domicile et de la correspondance, ni d'aucune disposition constitutionnelle ou légale que la preuve qui a été obtenue en méconnaissance d'un droit fondamental garanti par la Convention précitée ou par la Constitution, n'est jamais admissible ;

Attendu que, sauf dans le cas où une disposition conventionnelle ou légale prévoit elle-même les conséquences juridiques de la méconnaissance d'une formalité prescrite par la loi relative à l'obtention de la preuve, le juge décide quelles sont les conséquences de cette irrégularité ; que la circonstance que la formalité dont la méconnaissance est constatée, concerne un des droits fondamentaux garantis par les articles 6 et 8.1 de la Convention de sauvegarde des droits de l'homme et des libertés fondamentales et par les articles 12, alinéa 2, et 15 de la Constitution, n'y déroge pas. »

II. LE DROIT ET LA PRATIQUE INTERNES PERTINENTS

A. La législation pertinente

21. L'article 15 de la Constitution belge garantit l'inviolabilité du domicile. Cette disposition précise également qu'aucune visite domiciliaire ne peut avoir lieu que dans les cas prévus par la loi et dans les formes qu'elle prescrit. La Cour de cassation de Belgique a défini la notion de domicile, au sens de celte disposition constitutionnelle, dans les termes suivants :

« { ..) le lieu, en ce compris les enclaves propres y encloses, occupé par une personne en vue d'y établir sa demeure ou sa résidence réelle et où elle a droit, à ce titre, au respect de son intimité, de sa tranquillité et plus généralement de sa vie privée. »

22. Le législateur belge a prévu la possibilité pour les fonctionnaires de police de pénétrer dans tous les lieux accessibles au public. Ce principe est consacré à l'article 26 de la loi du 5 août 1992 relative à la fonction de police, rédigé comme suit :
« Les fonctionnaires de police peuvent toujours pénétrer dans les lieux accessibles au public ainsi que les biens immeubles abandonnés, afin de veiller au maintien de l'ordre public et au respect des lois et des règlements de police.

Ils peuvent toujours pénétrer en ces mêmes lieux afin d'exécuter des missions de police judiciaire.

Dans le respect de l'inviolabilité du domicile, ils peuvent visiter les établissements hôteliers et autres établissements de logement. Ils peuvent se faire présenter par les propriétaires, tenanciers ou préposés de ces établissements, les documents d'inscription des voyageurs ».

B. La jurisprudence relative aux conséquences du constat d'une irrégularité commise dans l'obtention d'une preuve

23. Le principe de l'exclusion de la preuve irrégulière ou illégale a longtemps prévalu en droit belge. Déjà dans un arrêt du 12 mars 1923, la Cour de cassation a décidé qu'on ne saurait tenir compte de constatations faites en dehors des règles protectrices de l'inviolabilité du domicile . Cette jurisprudence a été confirmée par un arrêt du 4 mars 1929 et, par la suite, à plusieurs reprises . La Cour de cassation a, en outre, décidé que le juge du fond ne pouvait pas se borner à écarter des débats la preuve illégalement obtenue mais devait également exclure toutes les preuves qui en sont la conséquence directe ou indirecte . Dans le même sens, selon l'ancienne jurisprudence de la Cour de cassation, lorsque le juge constate que l'action publique est fondée sur une illégalité, il devait constater l'irrecevabilité des poursuites.

24. Dans un arrêt du 13 mai 1986, la Cour de cassation a, par ailleurs, considéré que la règle de l'exclusion s'imposait pour les preuves obtenues par un acte inconciliable avec les règles substantielles de la procédure pénale ou avec les principes généraux du droit, et plus particulièrement avec le respect des droits de la défense, et cela même si cet acte n'est pas expressément interdit par la loi . La doctrine et la jurisprudence ont donc plus généralement utilisé la notion de preuve irrégulière et non plus de preuve illégale.

25. Lorsque le législateur n'a pas expressément prévu que la formalité est prescrite à peine de nullité, la doctrine et la jurisprudence considéraient, jusqu'il y a peu, que seule la violation d'une formalité dite « substantielle » entraîne l'irrégularité de la preuve et, partant, son exclusion. Il revenait donc au pouvoir judiciaire de déterminer les formalités entraînant l'irrégularité de la preuve. Or, il n'existait pas de critères précis permettant de distinguer les formalités substantielles des autres. Selon la doctrine, les formalités doivent être qualifiées de substantielles lorsque leur respect apparaît « impérieux pour garantir une bonne administration de la justice » ou, encore, lorsqu'elles sont « indispensables pour que l'acte puisse remplir sa fonction ».

26. Par un arrêt du 14 octobre 2003, la Cour de cassation a fondamentalement modifié sa jurisprudence antérieure. Dorénavant, la circonstance qu'un élément de preuve ait été recueilli de manière irrégulière a pour seule conséquence que le juge ne peut prendre cet élément en considération, ni directement, ni indirectement, lorsqu'il forme son intime conviction :

- soit lorsque le respect des conditions de forme déterminées est prescrit à peine de nullité ;

- soit lorsque l'irrégularité commise a entaché la fiabilité de la preuve ;

- soit lorsque l'utilisation de la preuve est incompatible avec le droit à un procès équitable.

27. Dans toutes les autres hypothèses, le juge n'est nullement tenu d'exclure la preuve obtenue irrégulièrement. Il lui appartiendra, souverainement, d'apprécier la conséquence de cette irrégularité.

28. Le 23 mars 2004, la Cour de cassation a précisé sa jurisprudence à l'occasion d'un pourvoi en cassation formé contre un arrêt de la chambre des mises en accusation de la cour d'appel d'Anvers, dans les termes suivants :

« Attendu que, hormis l'article 3 de la Convention de sauvegarde des droits de l'homme et des libertés fondamentales et les articles 2 et 16 de la Convention du 10 décembre 1984 contre la torture et autres peines ou traitements cruels, inhumains ou dégradants, qui interdisent l'usage d'informations ou d'aveux obtenus de telle manière, les articles 6 de la Convention de sauvegarde des droits de l'homme et des libertés fondamentales et 14 du Pacte international relatif aux droits civils et politiques qui garantissent le droit à un procès équitable, laissent au droit national le pouvoir de régir l'administration de la preuve et les moyens de preuve en matière répressive.

Attendu qu'en droit belge, l'usage d'une preuve que l'autorité chargée de l'information, de l'instruction et de la poursuite des infractions ou le dénonciateur ont obtenue en vue de l'administration de cette preuve, ensuite d'une infraction, en violation d'une règle du droit de la procédure pénale, ensuite d'une violation du droit à la vie privée, en violation des droits de la défense ou en violation du droit à la dignité humaine, n'est en principe pas autorisé.

Que, cependant, le juge ne peut écarter une preuve obtenue illicitement que dans les seuls cas suivants :

- soit lorsque le respect de certaines conditions de forme est prescrit à peine de nullité ;

- soit lorsque l'irrégularité commise a entaché la crédibilité de la preuve ;

- soit lorsque l'usage de la preuve est contraire au droit à un procès équitable.

Attendu qu'il appartient au juge d'apprécier l'admissibilité d'une preuve obtenue illicitement à la lumière des articles 6 de la Convention de sauvegarde des droits de l'homme et des libertés fondamentales ou 14 du Pacte international relatif aux droits civils et politiques compte tenu des éléments de la cause prise dans son ensemble, y compris le mode d'obtention de la preuve et les circonstances dans lesquelles l'illicéité a été commise.

Attendu que, lors de cette appréciation, le juge peut prendre en considération notamment la circonstance ou l'ensemble des circonstances suivantes :

- soit que l'autorité chargée de l'information, de l'instruction et de la poursuite des infractions a ou non commis intentionnellement l'acte illicite ;

- soit que la gravite de l'infraction dépasse de manière importante l'illicéité commise ;

- soit que la preuve obtenue illicitement ne concerne qu'un élément matériel de l'existence de l'infraction. »

29. Par un arrêt du 16 novembre 2004, rendu dans une affaire autre que celle du requérant, la Cour de cassation a affirmé qu'il ne ressortait ni de l'article 6, ni de l'article 8 de la Convention européenne des droits de l'homme et des libertés fondamentales, ni d'aucune disposition légale ou constitutionnelle, qu'une preuve recueillie en violation de ces normes serait toujours inadmissible. La cour a confirmé ensuite sa jurisprudence dans les termes suivants :

« Attendu que, hormis quand une disposition légale ou un traité international prévoit lui-même les conséquences de la méconnaissance d'une formalité légale concernant l'obtention d'une preuve, le juge décide des conséquences qu'implique cette irrégularité que la circonstance que la formalité dont la méconnaissance est constatée se rapporte à un droit fondamental garanti par les articles 6 et 8, alinéa 2, de la CEDH et les articles 12, alinéa 2 et 15 de la Constitution n'enlève rien à ce principe » .

EN DROIT

I. SUR LA VIOLATION ALLÉGUÉE DE L'ARTICLE 6 § 1 DE LA CONVENTION

30. Le requérant allègue qu'il n'a pas bénéficié d'un procès équitable car les éléments de preuve qui ont servi de base aux poursuites contre lui ont été recueillies de manière irrégulière. Il invoque l'article 6 § 1 de la Convention, qui dans sa partie pertinente dispose :

« Toute personne a droit à ce que sa cause soit entendue équitablement (...) par un tribunal (...) qui décidera (...) du bien-fondé de toute accusation en matière pénale dirigée contre elle. »

A. Sur la recevabilité

31. La Cour constate que ce grief n'est pas manifestement mal fondé au sens de l'article 35 § 3 de la Convention. La Cour relève par ailleurs qu'il ne se heurte à aucun autre motif d'irrecevabilité. Il convient donc de le déclarer recevable.

B. Sur le fond

32. Le Gouvernement relève que le grief soulevé par le requérant pose en soi la question de la compatibilité de la jurisprudence récente de la Cour de cassation de Belgique avec la garantie du droit à un procès équitable.

33. Le Gouvernement se prévaut de l'arrêt de la Cour dans l'affaire Khan c. Royaume-Uni (no 35394/97, § 38, CEDH 2000-V), dans laquelle, en dépit du constat de violation de l'article 8 de la Convention, la Cour a conclu que le requérant avait bénéficié d'un procès équitable dès lors qu'il avait, au cours du procès, pu librement contredire tous les éléments de preuve, même obtenus en violation de son droit à la vie privée. Il tire comme conclusion qu'il n'y a pas de nécessaire corrélation entre la violation du droit à la vie privée lors de la recherche de la preuve et la garantie du droit à un procès équitable.

34. Le Gouvernement rappelle que la Cour a par la suite confirmé cette jurisprudence dans l'arrêt P.G. et J.H. c. Royaume-Uni (no 44787/98, CEDH 2001-IX) et aussi dans l'arrêt Allan c. Royaume-Uni (no 48539/99, CEDH 2002-IX), quoique dans cette dernière affaire elle a considéré que le droit à un procès équitable du requérant avait été violé, mais pour d'autres motifs que ceux évoqués dans la présente requête.

35. Le Gouvernement souligne que la question fondamentale qu'il convient de se poser pour vérifier si le requérant a bénéficié ou non d'un procès équitable consiste à examiner s'il a eu la possibilité de remettre en question l'authenticité de l'élément de preuve et de contredire cet élément. Or, cela n'est pas contesté en l'espèce. Par ailleurs, les irrégularités constatées n'ont pas été de nature à remettre en cause la fiabilité ou l'exactitude des constatations faites par les policiers. La cour d'appel de Gand a également procédé à un examen de proportionnalité des intérêts en cause avant de juger que ces intérêts mis en cause en raison de l'ampleur du trafic découvert étaient supérieurs à l'illégalité alléguée.

36. Enfin, le Gouvernement affirme qu'il n'y a aucun automatisme en ce qui concerne l'admissibilité des éléments de preuve irrégulièrement obtenus. Le principe demeure l'exclusion de la preuve entachée d'irrégularité surtout lorsqu'une disposition conventionnelle ou légale prévoit elle-même que la méconnaissance d'une formalité relative à l'obtention d'une preuve est prescrite à peine de nullité, lorsque l'irrégularité commise a entaché la fiabilité de la preuve, soit lorsque l'utilisation de la preuve est incompatible avec le droit à un procès équitable.

37. Le requérant rétorque que, d'une part, la cour d'appel de Gand a indûment décidé que l'entrepôt et les parties communes de l'immeuble ne constituaient pas un domicile au sens de la Convention, que les droits des citoyens visés par les articles 8 de la Convention et 17 du Pacte international des droits civils et politiques avaient été garantis et que, d'autre part, la Cour de cassation a indûment décidé que, compte tenu du fait que la Convention ne prévoit aucune sanction en cas de constatation d'une violation des règles énoncées par ses articles 6 et 8, le juge décide arbitrairement quelles seront les suites de la violation.

38. Le requérant prétend que la nature de l'illégalité commise par la police lors de la saisie des seuls éléments de preuve à son encontre consistait dans le fait que, sans qu'une loi particulière l'autorise, la police avait pénétré dans un lieu protégé par l'article 8 de la Convention et sans mandat délivré conformément au droit national. C'était à l'occasion de cet acte illégal qu'ont été trouvées les seules preuves contre le requérant.

39. Le requérant se prévaut de l'opinion de la minorité de la Cour dans les arrêts Schenk c. Suisse, 12 juillet 1988, et Khan précité, pour affirmer que la Cour ne saurait considérer une procédure comme équitable alors que l'Etat a constaté une violation d'un autre article de la Convention, en l'occurrence l'article 8. Selon lui, seules les constatations illégales de la police ont conduit au verdict de la culpabilité dans l'arrêt de la cour d'appel.

40. La Cour rappelle qu'elle a pour seule tâche, aux termes de l'article 19 de la Convention, d'assurer le respect des engagements résultant pour les Etats contractants de la Convention. Il ne lui appartient pas, en particulier, de connaître des erreurs de fait ou de droit prétendument commises par une juridiction interne, sauf si et dans la mesure où elles pourraient avoir porté atteinte aux droits et libertés sauvegardés par la Convention. Si l'article 6 garantit le droit à un procès équitable, il ne réglemente pas pour autant l'admissibilité des preuves en tant que telles, matière qui relève au premier chef du droit interne (Schenk, précité, § 45 ; Teixeira de Castro c. Portugal, 9 juin 1998, § 34, Recueil 1998-IV ; Jalloh c. Allemagne ([GC], no 54810/01, 11 juillet 2006, §§ 94-96).

41. La Cour n'a donc pas à se prononcer, par principe, sur l'admissibilité de certaines catégories d'éléments de preuve, par exemple des éléments obtenus de manière illégale au regard du droit interne, ou encore sur la culpabilité du requérant. Elle doit examiner si la procédure, y compris la manière dont les éléments de preuve ont été recueillis, a été équitable dans son ensemble, ce qui implique l'examen de l'« illégalité » en question et, dans le cas où se trouve en cause la violation d'un autre droit protégé par la Convention, de la nature de cette violation (voir, notamment, Khan précité, § 34 ; P.G. et J.H., précité, § 76 ; Heglas c. République tchèque, no 5935/02, §§ 89-92, 1er mars 2007 ; Allan, précité, § 42).

42. Pour déterminer si la procédure dans son ensemble a été équitable, il faut aussi se demander si les droits de la défense ont été respectés. Il faut rechercher notamment si le requérant s'est vu offrir la possibilité de remettre en question l'authenticité de l'élément de preuve et de s'opposer à son utilisation. Il faut prendre également en compte la qualité de l'élément de preuve, y compris le point de savoir si les circonstances dans lesquelles il a été recueilli font douter de sa fiabilité ou de son exactitude. Si un problème d'équité ne se pose pas nécessairement lorsque la preuve obtenue n'est pas corroborée par d'autres éléments, il faut noter que lorsqu'elle est très solide et ne prête à aucun doute, le besoin d'autres éléments à l'appui devient moindre (voir, notamment, les arrêts Khan et Allan précités, respectivement §§ 35 et 37, et § 43).

43. Dans l'arrêt Bykov c. Russie ([GC], no 4378/02, §§ 95–96 et 104, CEDH 2009–...), la Cour a jugé que la procédure conduite dans l'affaire du requérant, considérée dans son ensemble, n'a pas méconnu les exigences d'un procès équitable, car le requérant avait eu la possibilité de dénoncer l'opération secrète, de même que tous les éléments qu'elle avait permis de recueillir, au cours de débats contradictoires devant la juridiction de première instance et dans ses moyens d'appel. Elle a relevé que les tribunaux avaient abordé chacun des arguments du requérant et les avaient rejetés par des décisions motivées et le requérant ne s'était pas plaint de la procédure par laquelle les tribunaux s'étaient prononcés sur l'admissibilité des preuves. Elle a en outre observé que pour condamner le requérant, la juridiction interne ne s'était pas seulement appuyée sur l'enregistrement litigieux, mais aussi sur les éléments matériels obtenus grâce à l'opération secrète montée par la police.

44. La Cour souligne que, dans toutes les affaires susmentionnées, les preuves recueillies en méconnaissance du droit interne l'étaient aussi en méconnaissance de l'article 8 de la Convention lui-même.

45. En revanche, la Cour a jugé que l'exclusion d'une preuve obtenue illégalement s'imposait, afin de préserver l'équité du procès, lorsque l'irrégularité commise touchait certains droits considérés comme parmi les plus fondamentaux de la Convention, notamment l'article 3 de celle-ci. Dans les affaires Jalloh précité et Göcmen c. Turquie (no 72000/01, 17 octobre 2006), la Cour a jugé que l'utilisation de preuves recueillies au moyen d'actes qualifiés de torture ou de traitement inhumain et dégradant compromettait le caractère équitable du procès.

46. La Cour considère que la présente espèce diffère des autres, et en particulier de celles où était en cause de surcroît une méconnaissance de l'article 8 de la Convention.

47. La Cour note que la jurisprudence belge en la matière, qui semble bien établie et sur laquelle se fondaient les arrêts de la cour d'appel de Gand et de la Cour de cassation en l'espèce, laisse au juge un large pouvoir d'appréciation pour atténuer voire, le cas échéant, effacer les conséquences des irrégularités affectant l'obtention d'une preuve.

48. La Cour relève que, dans le cadre de cette appréciation, le tribunal correctionnel de Furnes acquitta le requérant au motif que les preuves avaient été obtenues de manière illicite.

49. La cour d'appel, quant à elle, s'est livrée à un examen minutieux de la configuration des lieux pour se prononcer sur la question de savoir s'il y avait ou non violation de domicile. Elle a effectué une distinction entre les différents lieux visités par les policiers, soit, d'une part, le terrain clôturé qui entourait les bâtiments du complexe industriel et, d'autre part, le hangar no 2 de ce complexe et le bâtiment principal. En ce qui concerne le premier, la cour d'appel a jugé qu'il constituait un lieu accessible au public. Par conséquent, les policiers avaient régulièrement agi lorsqu'ils étaient intervenus autour des bâtiments, lorsqu'ils avaient aperçu les deux personnes occupées à charger le camion, et enfin lorsqu'ils avaient interpellé le chauffeur. Elle a examiné ensuite si les policiers avaient régulièrement agi en pénétrant dans le hangar et le bâtiment commun. Or ces bâtiments ne constituaient pas un domicile au sens de l'article 15 de la Constitution. La cour d'appel a estimé, par contre, que ces bâtiments ne pouvaient pas être considérés comme « accessibles au public », au sens de l'article 26 de la loi du 5 août 1992 sur la fonction de police dès lors que le hangar no 2 n'était accessible que par une porte individuelle. La cour d'appel a également jugé que ces lieux ne pouvaient être considérés comme des « biens immeubles abandonnés », au sens de la même loi.

50. Sur base de ces constatations, la cour d'appel a conclu que la perquisition du hangar no 2 et du bâtiment principal était irrégulière mais que cette irrégularité n'avait pas eu de conséquences sur la valeur des éléments recueillis car la loi n'attachait aucune sanction spécifique à cette irrégularité. Elle a, en outre, souligné que les infractions commises étaient d'une telle gravité qu'elles dépassaient de loin les irrégularités commises dans l'obtention de la preuve et que les droits visés à l'article 8 de la Convention avaient, d'une manière ou d'une autre, été respectés (paragraphes 16–17 ci-dessus).

51. Toutefois, la Cour ne perd pas de vue le fait qu'en pénétrant dans le hangar, lieu dans lequel le requérant ne résidait pas ni n'exerçait du reste son activité professionnelle, les policiers ont constaté un flagrant délit. Cette opération de la police, dont la régularité peut certes prêter à critique, et les éléments de preuve recueillis à cette occasion ont fondé la condamnation du requérant.

52. A cet égard, la Cour rappelle que, selon sa jurisprudence, ce qui compte en pareil cas pour déterminer l'équité de la procédure, c'est la question de savoir si les droits de la défense ont été respectés. La Cour examine notamment si le requérant s'est vu offrir la possibilité de remettre en question l'authenticité de l'élément de preuve obtenu illégalement et de s'opposer à son utilisation. Lorsque la qualité de cet élément de preuve est très solide et ne prête à aucun doute, le besoin d'autres éléments à l'appui devient moindre (Bykov précité, § 90).

53. Or, en l'espèce, les circonstances dans lesquelles les éléments de preuve litigieux ont été recueillis ne font aucunement douter de leur fiabilité ou de leur exactitude. De plus, le requérant s'est vu offrir la possibilité de contester devant trois degrés de juridiction les éléments recueillis et les constatations faites et de s'opposer à leur utilisation, au sens de la jurisprudence précitée de la Cour.

54. Ainsi, la Cour considère que le bien-fondé de l'accusation pénale contre le requérant a été examiné équitablement, comme l'exige l'article 6 § 1, et qu'il n'y a donc pas eu violation de cet article.

II. SUR LA VIOLATION ALLÉGUÉE DES ARTICLES 8 ET 14 DE LA CONVENTION

55. Invoquant les articles 8 (droit au respect du domicile) et 14 (interdiction de discrimination) de la Convention, ainsi que l'article 26 du Pacte international relatif aux droits civils et politiques, le requérant fait valoir que la cour d'appel ne pouvait pas considérer que les lieux où la « perquisition » fut menée ne constituaient pas un « domicile » au sens de la Convention car il y exerçait son activité professionnelle et commerciale.

56. Le seul élément que le requérant soulève à l'appui de sa thèse est l'exercice de son activité professionnelle et commerciale. La Cour relève que son activité de marchand d'antiquités apparaît comme tout à fait étrangère aux lieux de la perquisition, qui ont servi de base pour un trafic de stupéfiants. Or, cette dernière activité délictueuse ne peut être considérée comme une activité professionnelle et/ou commerciale protégée par la notion de domicile au sens de l'article 8. Le requérant n'était, par ailleurs, nullement locataire des lieux concernés.

57. Il s'ensuit que ce grief doit être déclaré incompatible ratione materiae avec les dispositions de la Convention et rejeté en application de l'article 35 §§ 3 et 4 de celle-ci.

PAR CES MOTIFS, LA COUR, À L'UNANIMITÉ,

1. Déclare la requête recevable quant au grief tiré de l'article 6 § 1 de la Convention et irrecevable pour le surplus ;

2. Dit qu'il n'y a pas eu violation de l'article 6 § 1 de la Convention ;

Fait en français, puis communiqué par écrit le 28 juillet 2009 en application de l'article 77 §§ 2 et 3 du règlement.

Françoise Elens-Passos Ireneu Cabral Barreto

Greffière adjointe Président

DIRITTO AD UN EQUO PROCESSO - CERTEZZA DEL DIRITTO - CONTRASTI PERSISTENTI DI GIURISPRUDENZA INTERNI AD UNA CORTE SUPREMA - VIOLAZIONE

(IORDAN IORDANOVIC C. BULGARIA) DIRITTO AD UN EQUO PROCESSO - CERTEZZA DEL DIRITTO - CONTRASTI PERSISTENTI DI GIURISPRUDENZA INTERNI AD UNA CORTE SUPREMA - VIOLAZIONE I ricorrenti, dipendenti del Ministero dell’Interno bulgaro, erano stati destituiti a seguito di un’inchiesta disciplinare. Si erano rivolti alla magistratura, ottenendo l’annullamento del provvedimento, La Corte Suprema aveva confermato tale giudizio. Qualche mese più tardi un altro collegio della stessa Corte aveva rovesciato le precedenti conclusioni, applicando un diverso principio di diritto.
Portato il caso davanti alla Corte europea, quest’ultima ha ravvisato la violazione dell’art. 6, par. 1 della Convenzione. Ha ricordato che il ruolo delle Corti Supreme è quello di risolvere i contrasti di giurisprudenza, contribuendo alla certezza del diritto. Nel caso di specie, la Corte Suprema aveva fornito difformi interpretazioni del diritto, persistenti anche in seguito alla trattazione dell’affare, creando incertezza giurisprudenziale. Tale situazione – ad avviso della Corte - priva le parti di una garanzia “essenziale” del processo equo.

Testo Completo: Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo di Strasburgo del 2 luglio 2009

CINQUIÈME SECTION

AFFAIRE IORDAN IORDANOV ET AUTRES c. BULGARIE

(Requête n. 23530/02)

ARRÊT STRASBOURG 2 juillet 2009

Cet arrêt deviendra définitif dans les conditions définies à l'article 44 § 2 de la Convention. Il peut subir des retouches de forme.

En l'affaire Iordan Iordanov et autres c. Bulgarie,

La Cour européenne des droits de l'homme (cinquième section), siégeant en une chambre composée de :

Peer Lorenzen, président,

Rait Maruste,

Karel Jungwiert,

Renate Jaeger,

Isabelle Berro-Lefèvre,

Mirjana Lazarova Trajkovska, juges,

Pavlina Panova, juge ad hoc,

et de Claudia Westerdiek, greffière de section,

Après en avoir délibéré en chambre du conseil le 9 juin 2009,

Rend l'arrêt que voici, adopté à cette date :

PROCÉDURE

1. A l'origine de l'affaire se trouve une requête (no 23530/02) dirigée contre la République de Bulgarie et dont trois ressortissants de cet Etat, MM. Iordan Iordanov, Kamen Ivanov et Milcho Kirilov (« les requérants »), ont saisi la Cour le 14 juin 2002 en vertu de l'article 34 de la Convention de sauvegarde des droits de l'homme et des libertés fondamentales (« la Convention »).

2. Les requérants sont représentés par Me D. Kanchev, avocat à Sofia. Le gouvernement bulgare (« le Gouvernement ») est représenté par son agent, Mme M. Dimova, du ministère de la Justice.

3. Les requérants faisaient grief aux tribunaux d'avoir adopté, dans le cadre des procédures judiciaires de contestation de leurs licenciements, des décisions contradictoires et non motivées. Ils alléguaient aussi que l'accès au public pendant ces procédures judiciaires avait été injustement restreint et qu'ils n'avaient pas été mis sur un pied d'égalité avec la partie adverse. Les intéressés dénonçaient également la durée selon eux excessive des poursuites pénales dirigées contre eux et l'absence de recours internes efficaces pour remédier à cette situation. Enfin, ils se plaignaient de la durée de l'interdiction de quitter le territoire qui leur avait été imposée par le parquet.

4. Le 3 juillet 2007, la Cour a déclaré la requête partiellement recevable et a décidé de communiquer au Gouvernement les griefs susmentionnés, tirés des articles 6 § 1 et 13 de la Convention et de l'article 2 du Protocole no 4. Comme le permet l'article 29 § 3 de la Convention, il a en outre été décidé que la chambre se prononcerait en même temps sur la recevabilité et sur le fond de l'affaire.

5. La juge Kalaydjieva, juge élue au titre de la Bulgarie, s'étant déportée, le 30 janvier 2009 le Gouvernement a désigné Mme Pavlina Panova pour siéger à sa place en qualité de juge ad hoc (articles 27 § 2 de la Convention et 29 § 1 du règlement de la Cour).

EN FAIT

I. LES CIRCONSTANCES DE L'ESPÈCE

6. Le premier et le deuxième requérants, MM. Iordan Iordanov et Kamen Ivanov, sont nés respectivement en 1950 et en 1955 et résident à Sofia. Le troisième requérant, M. Milcho Kirilov, était né en 1949 et résidait à Sofia. Il est décédé le 23 août 2003. Ses héritières, Mmes Vera Kirilova, Radoslava Rizova et Elena Dimitrova, nées respectivement en 1949, 1971 et 1976, ont informé la Cour qu'elles souhaitaient poursuivre la procédure d'examen de la requête.

A. Le contexte général de l'affaire

7. A l'époque des faits, les trois requérants étaient agents du ministère de l'Intérieur et travaillaient pour le service d'information opérationnelle et technique du ministère (le SIOT), dont la tâche principale était de recueillir des informations grâce à des moyens et procédés techniques spéciaux (enregistrement d'images et de voix, filature, surveillance des réseaux de télécommunication et des personnes, etc.). M. Iordanov occupait la fonction d'expert en chef et avait le grade de lieutenant-colonel (подполковник). M. Kirilov était chef de groupe et avait le grade de major. M. Ivanov occupait la fonction de chef de secteur du SIOT et avait le grade de major. Il était le supérieur hiérarchique des deux autres requérants.

8. Le 28 juillet 2000, du matériel d'écoute fut retrouvé dans l'appartement de fonction occupé par le procureur général. L'affaire fut largement médiatisée et devint vite l'objet de vifs débats politiques. Le ministre de l'Intérieur forma une commission spéciale et la chargea de mener une enquête interne sur ce sujet. La commission recueillit des documents et interrogea plusieurs agents du SIOT, y compris les trois requérants. Le 8 août 2000, elle rendit au ministre de l'Intérieur son rapport final, qui précisait le nombre, l'emplacement et le type des appareils trouvés, ainsi que leur mode d'emploi. Le rapport indiquait également que ces appareils avaient été installés avant que le logement ne soit occupé par le procureur général et précisait l'identité des agents du SIOT qui avaient omis, au cours d'une inspection technique réalisée en 1999, de détecter et de retirer le matériel d'écoute. La commission désigna comme responsables les trois requérants, ainsi que deux autres officiers du SIOT, B.B. et S.S., et elle proposa au ministre de les licencier.

B. Les procédures judiciaires de contestation des licenciements des requérants

9. Par trois ordonnances du 8 août 2000, le ministre de l'Intérieur licencia M. Iordanov, M. Ivanov et leur collègue B.B. Le 30 octobre 2000, il licencia également M. Kirilov. Les motivations des quatre ordonnances étaient identiques et renvoyaient aux résultats de l'enquête interne. Les trois requérants et B.B. contestèrent la légalité de leurs licenciements devant la Cour administrative suprême.

10. Celle-ci classa les quatre affaires secrètes et les examina à huis clos. Conformément à la législation interne applicable, les défenseurs des requérants sollicitèrent auprès du ministère de l'Intérieur l'autorisation d'accéder aux dossiers. L'avocat mandaté par MM. Iordanov et Kirilov se vit délivrer cette autorisation. L'un des deux avocats de M. Ivanov essuya un refus du ministère et le requérant renonça à son assistance. Au cours des différentes procédures, ni les requérants ni leurs avocats ne furent autorisés à faire des copies des documents figurant dans leurs dossiers.

11. Par quatre arrêts rendus respectivement le 6 février 2001, le 13 juillet 2001 et les 5 et 8 octobre 2001, la Cour administrative suprême, statuant en formation de trois juges, annula les licenciements de B.B. et des trois requérants. Dans les motifs des quatre arrêts, la haute juridiction administrative constata qu'aucun des intéressés n'avait eu la possibilité de prendre connaissance des résultats de l'enquête interne. Elle observa qu'il y avait une certaine différence entre une « enquête officielle » et une « enquête interne », en ce que l'enquête officielle relevait de la procédure disciplinaire applicable aux fonctionnaires du ministère de l'Intérieur, qui permettait à l'intéressé d'être informé de l'issue de l'enquête et de formuler des objections, tandis que la législation bulgare n'entourait pas expressément des mêmes garanties l'enquête interne. Néanmoins, la Cour administrative suprême estima que ces garanties devaient s'appliquer également à l'enquête interne, et que par conséquent, les autorités auraient dû communiquer aux intéressés les conclusions de la commission formée par le ministre de l'Intérieur et leur donner la possibilité de formuler des objections. Elle conclut que l'inobservation de cette règle représentait un vice de procédure majeur qui emportait annulation des ordonnances du ministre.

12. Le ministre de l'Intérieur se pourvut en cassation. Le 25 juillet 2001, une formation de cinq juges de la Cour administrative suprême confirma l'arrêt du 6 février 2001 concernant le licenciement de B.B. La haute juridiction reprit les motifs de la juridiction inférieure pour conclure à l'applicabilité des garanties de l'enquête officielle en cas d'enquête interne.

13. L'examen des pourvois en cassation relatifs aux licenciements des trois requérants eut lieu quelques mois plus tard. Par trois arrêts du 7 décembre 2001, du 18 décembre 2001 et du 7 février 2002, la Cour administrative suprême, statuant en formation de cinq juges, infirma les arrêts de l'instance inférieure et confirma les licenciements des requérants. Dans les motifs de ces trois arrêts, elle souligna que les dispositions de l'article 240 alinéa 4 de la loi sur le ministère de l'Intérieur prévoyaient qu'en cas de constatation d'une infraction disciplinaire dans le cadre d'une « enquête interne », l'organe compétent n'était pas tenu de mener une « enquête officielle ». Elle conclut donc que les garanties procédurales entourant l'enquête officielle n'étaient pas applicables dans le cadre de l'enquête interne ; qu'ainsi, la législation en vigueur n'exigeait pas en l'espèce que les requérants aient pris connaissance des résultats de l'enquête ; et que, dès lors, les règles de procédure avaient été respectées. Elle observa par ailleurs que les ordonnances du ministre respectaient les autres conditions de légalité.

14. Dans les motifs des arrêts du 7 décembre 2001 et du 7 février 2002, la formation de jugement exprima son désaccord avec le raisonnement exposé dans l'arrêt du 25 juillet 2001 concernant le licenciement de B.B. Quatre des cinq juges qui avaient adopté l'arrêt du 25 juillet 2001 faisaient partie de la formation de jugement qui a adopté les arrêts du 7 décembre 2001 et du 7 février 2002.

C. Les poursuites pénales contre les requérants

15. Le 28 juillet 2000, consécutivement à la découverte du matériel d'écoute dans le logement du procureur général, le parquet militaire de Sofia ouvrit des poursuites pénales contre neuf personnes, dont huit officiers du ministère de l'Intérieur, parmi lesquels les trois requérants. Ceux-ci étaient soupçonnés de manquement à leurs devoirs de fonctionnaires et d'abus de pouvoir, délit prévu par l'article 387 du code pénal.

16. Le 31 juillet 2000, à 14 heures, MM. Iordanov et Kirilov furent conduits au service militaire de l'instruction où ils furent interrogés pendant plusieurs heures. On les informa des poursuites pénales ouvertes contre eux. Le même jour, l'enquêteur militaire les plaça en garde à vue pour vingt-quatre heures. Leur garde à vue fut prolongée le lendemain par le procureur militaire.

17. Le 1er août 2000, l'enquêteur militaire interrogea le troisième requérant, M. Ivanov. Celui-ci fut informé des charges retenues contre lui et placé en garde à vue pour vingt-quatre heures. Le 2 août 2000, le procureur militaire de Sofia prolongea sa garde à vue jusqu'au 4 août 2000.

18. Les 2 et 3 août 2000, l'enquêteur militaire inculpa formellement les requérants de l'infraction pénale de manquement à leurs devoirs. Peu après, sur décision de l'enquêteur, les requérants furent libérés sous caution.

19. Au cours de l'instruction préliminaire, l'enquêteur interrogea vingt-quatre témoins, ordonna des expertises techniques et recueillit plusieurs preuves matérielles. Les documents du dossier furent classés en six volumes.

20. Le 23 juin 2003, le procureur militaire mit fin aux poursuites pénales contre M. Ivanov pour insuffisance de preuves. Le 29 septembre 2003, il mit fin aux poursuites pénales contre M. Kirilov, celui-ci étant décédé le 23 août 2003. Les poursuites pénales dirigées contre M. Iordanov et deux autres personnes continuèrent.

21. Le 30 mars 2004, le parquet militaire de Sofia renvoya M. Iordanov et deux autres personnes en jugement devant le tribunal militaire de Sofia. Il était reproché au requérant d'avoir omis, au cours d'une inspection technique effectuée en 1999, de détecter et de retirer le matériel d'écoute placé dans l'appartement du procureur général, et d'avoir aidé un des autres coaccusés à utiliser illégalement ce matériel.

22. Le 21 septembre 2006, le tribunal militaire de Sofia acquitta les trois accusés. Ce jugement fut confirmé le 30 juillet 2007 par la cour d'appel militaire, et le 13 décembre 2007 par la Cour suprême de cassation.

D. L'interdiction de quitter le territoire

23. Après l'ouverture des poursuites pénales contre les trois requérants, le procureur militaire prononça à leur encontre, à une date non communiquée, une interdiction de quitter le territoire.

24. Le 18 décembre 2000, le directeur de la Direction « Pièces d'identité et étrangers » de la police nationale ordonna le retrait des passeports des requérants. Ceux-ci en furent informés le 20 décembre 2000 et rendirent leurs passeports quelques jours plus tard.

25. L'interdiction fut levée par le procureur militaire le 23 juin 2003 à l'égard de M. Ivanov, mais resta en vigueur pour M. Kirilov jusqu'à son décès, le 23 août 2003. Quant à M. Iordanov, malgré son acquittement, il était toujours sous le coup de cette interdiction le 25 février 2008.

II. LE DROIT ET LA PRATIQUE INTERNES PERTINENTS

A. Le code pénal

26. L'article 387 alinéa 1 du code pénal, dans sa version en vigueur à l'époque des faits, prévoyait une peine d'emprisonnement allant jusqu'à trois ans en cas d'abus de pouvoir ou de manquement d'un fonctionnaire à ses devoirs si ces infractions avaient entraîné un préjudice. En cas de préjudice important, la peine était comprise entre un et huit ans (alinéa 2).

B. La procédure disciplinaire au sein du ministère de l'Intérieur

1. La législation en vigueur à l'époque des faits

27. La responsabilité disciplinaire des agents du ministère de l'Intérieur était régie par la loi de 1997 sur le ministère de l'Intérieur (ci-après la LMI) et son règlement d'application (ci-après le règlement d'application). En vertu de l'article 234 de la LMI, il y avait infraction disciplinaire en cas de non-observation fautive des dispositions législatives ou des actes et ordonnances adoptés par la hiérarchie du ministère de l'Intérieur et en cas d'agissements constituant des violations de l'ordre social établi.

28. L'article 238 de la LMI prévoyait l'imposition des sanctions suivantes en cas d'infraction disciplinaire commise par un agent du ministère de l'Intérieur : rappel à l'ordre (мъмрене), avertissement écrit, blâme (порицание), rétrogradation et renvoi.

29. En vertu de l'article 240 alinéa 3 de la LMI, le supérieur hiérarchique était tenu de mener une enquête officielle (служебна проверка) en cas de poursuites disciplinaires contre un agent quand la sanction envisagée était le renvoi. Le supérieur hiérarchique ouvrait l'enquête officielle par une ordonnance qui était présentée à l'agent (article 205 alinéa 2 du règlement d'application). A l'issue de l'enquête, l'officier responsable dressait un rapport et le présentait à l'agent, qui pouvait formuler des objections (article 212 alinéa 2 du règlement d'application). Si l'enquête officielle aboutissait au constat d'une infraction disciplinaire justifiant le renvoi de l'agent, le supérieur hiérarchique dressait un avis de licenciement pour motif disciplinaire (предложение за уволнение) et le présentait à l'intéressé, qui pouvait formuler des objections par écrit (article 212 alinéa 3 du règlement d'application). Le licenciement était ordonné par le supérieur hiérarchique compétent, qui devait préciser dans l'ordonnance correspondante les circonstances, l'infraction disciplinaire commise, les preuves sur la base desquelles elle avait été constatée, les dispositions législatives pertinentes et les modalités de contestation de l'ordonnance (article 213 du règlement d'application).

30. L'article 240 alinéa 4 de la LMI prévoyait qu'une enquête officielle n'était pas nécessaire lorsque l'infraction disciplinaire de l'agent avait été constatée à l'issue d'une enquête interne (вътрешноведомствена проверка). La loi et son règlement d'application ne prévoyaient aucune règle de procédure applicable à l'enquête interne.

2. La jurisprudence des juridictions administratives

31. Les juridictions administratives bulgares ont été confrontées à la question de savoir si les garanties procédurales offertes dans le cadre de l'enquête officielle à l'agent menacé de licenciement pour motif disciplinaire étaient également applicables en cas d'enquête interne.

32. Dans sa jurisprudence, la Cour administrative suprême, qui statue en dernier ressort sur les litiges concernant le licenciement des agents du ministère de l'Intérieur, a adopté deux solutions à ce problème. Dans certains arrêts, la haute juridiction administrative a accepté l'application aux cas d'enquête interne, par analogie, des garanties procédurales prévues pour l'enquête officielle, y compris l'obligation de présenter le rapport d'enquête final à l'intéressé (voir les arrêts des 6 février, 13 juillet, 5 et 8 octobre 2001, paragraphe 11 ci-dessus, ainsi que Решение № 89 от 08.01.2004 г. на ВАС по адм. д. № 5771/2003 г., V о.; Решение № 5342 от 09.06.2005 г. на ВАС по адм. д. № 9978/2004 г., V о., rendus par une formation de trois juges, et l'arrêt du 25 juillet 2001, paragraphe 12 ci dessus, et Решение № 4768 от 26.05.2004 г. на ВАС по адм. д. № 1080/2004 г., 5-членен с-в, rendus par une formation de cinq juges). Dans d'autres arrêts, elle a considéré que le législateur n'avait pas voulu entourer l'enquête interne des mêmes garanties que l'enquête officielle, et elle a refusé d'appliquer par analogie les dispositions concernant les règles de procédures en question (voir les arrêts des 7 et 18 décembre 2001 et du 7 février 2002, paragraphe 13 ci-dessus, ainsi que Решение № 4692 от 25.05.2004 г. на ВАС по адм. д. № 1256/2004 г., 5-членен с-в, rendus par une formation de cinq juges).

33. Selon l'article 91 alinéa 1 de la loi sur le pouvoir judiciaire de 1994 (abrogée), la Cour administrative suprême était tenue, entre autres, de veiller à l'application uniforme de la législation en matière administrative. Dans le cadre de cette fonction et à la demande du ministre de la Justice, du parquet général ou de son président, elle pouvait adopter des décisions interprétatives en cas de lacunes dans la jurisprudence des juridictions administratives (article 44 de la loi sur la Cour administrative suprême). L'interprétation de la législation adoptée par la haute juridiction administrative dans le cadre de cette procédure était contraignante pour les organes administratifs et judiciaires (article 45 de la loi sur la Cour administrative suprême).

34. La haute juridiction administrative n'a jamais été saisie d'une demande d'interprétation des dispositions pertinentes du droit interne et elle n'a pas rendu de décision interprétative sur la question relative à l'application des garanties procédurales entourant l'enquête officielle dans les cas d'enquête interne.

C. L'interdiction de quitter le territoire

35. En vertu de l'article 153a, alinéa 1, du code de procédure pénale de 1974 (ci-après le CPP), le procureur pouvait interdire à une personne inculpée d'une infraction pénale passible d'une peine d'emprisonnement de quitter le territoire sans l'autorisation préalable du parquet ou des tribunaux. Le refus d'autoriser un voyage à l'étranger était susceptible de recours devant les juridictions pénales compétentes (alinéa 2 du même article).

36. En 2005, l'Assemblée nationale adopta le nouveau code de procédure pénale (ci-après le NCPP). Entré en vigueur le 29 avril 2006, il reprend, en son article 68, les dispositions concernant l'interdiction de quitter le territoire. A la différence du CPP de 1974, le NCPP, en son article 68 alinéa 5, permet à la personne frappée d'une interdiction de quitter le territoire de demander au tribunal de première instance de lever cette interdiction en cas d'absence de danger de soustraction à la justice.

D. L'article 239a du CPP

37. Entré en vigueur en juin 2003 (et repris en substance à l'article 368 du NCPP), l'article 239a du CPP permettait à la personne inculpée de demander au tribunal de première instance d'ordonner son renvoi en jugement si l'enquête pénale menée à son encontre avait duré plus de deux ans, pour les infractions pénales graves, ou plus d'un an, pour toutes les autres infractions. Le tribunal se prononçait dans un délai de sept jours et pouvait soit ordonner au procureur de renvoyer l'intéressé en jugement dans un délai de deux mois, soit prononcer le renvoi de l'intéressé en jugement, soit mettre un terme aux poursuites. Si le procureur n'exerçait pas ses prérogatives dans le délai de deux mois, le tribunal clôturait la procédure pénale.

E. La réouverture de la procédure devant les juridictions administratives consécutivement à un arrêt de la Cour européenne des droits de l'homme

38. Selon l'article 239 point 6 du code de procédure administrative de 2006, la partie intéressée peut demander l'annulation d'un arrêt des juridictions administratives et la réouverture de la procédure devant celles-ci lorsque la Cour européenne des droits de l'homme a constaté une violation de l'un des articles de la Convention.

EN DROIT

I. OBSERVATIONS PRÉLIMINAIRES

39. La Cour note que le troisième requérant, M. Milcho Kirilov, est décédé le 23 août 2003, et que sa veuve et ses deux filles ont exprimé le souhait de poursuivre l'instance (paragraphe 6 ci-dessus).

40. La Cour rappelle que dans de nombreuses affaires où le requérant est décédé pendant l'examen de sa requête, elle a pris en compte le désir exprimé par ses héritiers ou proches parents de poursuivre la procédure (voir, parmi beaucoup d'autres arrêts, Dalban c. Roumanie [GC], no 28114/95, § 39, CEDH 1999 VI ; Ječius c. Lituanie, no 34578/97, § 41, CEDH 2000 IX ; Mutlu c. Turquie, no 8006/02, §§ 13 et 14, 10 octobre 2006 ; Hanbayat c. Turquie, no 18378/02, §§ 20 et 21, 17 juillet 2007). A la lumière de la jurisprudence précitée, la Cour estime que la veuve et les filles de M. Milcho Kirilov ont un intérêt légitime à maintenir la requête au nom de leur défunt époux et père. Pour des raisons d'ordre pratique, la Cour continuera à citer M. Milcho Kirilov comme « le requérant ».

II. SUR LES VIOLATIONS ALLÉGUÉES DE L'ARTICLE 6 § 1 DE LA CONVENTION CONCERNANT LES PROCÉDURES DE CONTESTATION DES LICENCIEMENTS DES REQUÉRANTS

41. Les requérants estiment que la Cour administrative suprême, par les arrêts contradictoires qu'elle a rendus dans leurs affaires et dans l'affaire identique de leur collègue B.B., a violé le principe de la sécurité juridique. En outre, la haute juridiction administrative n'aurait pas répondu à tous leurs arguments ; et ils auraient été placés en situation de net désavantage par rapport à la partie adverse : leurs avocats auraient été contraints de demander une autorisation au ministère de l'Intérieur pour pouvoir accéder aux documents du dossier, et ils n'auraient pas pu faire de copies de ces documents. Les requérants se plaignent aussi de la décision de la Cour administrative suprême de tenir des audiences à huis clos. Ils invoquent l'article 6 § 1 de la Convention, ainsi libellé dans sa partie pertinente :

« Toute personne a droit à ce que sa cause soit entendue équitablement, publiquement (...), par un tribunal (...), qui décidera (...) des contestations sur ses droits et obligations de caractère civil (...) »

42. Le Gouvernement n'a pas formulé d'observations.

A. Sur la recevabilité

43. La Cour observe que les requérants étaient à l'époque des faits des agents du ministère de l'Intérieur, et que les litiges en cause concernaient leurs licenciements, ordonnés par le ministre à l'issue de procédures disciplinaires ouvertes à leur encontre. Elle doit donc déterminer si l'article 6 de la Convention trouve à s'appliquer dans le cas d'espèce.

44. La Cour estime d'emblée qu'au vu de la qualification juridique des faits en droit interne, de la nature des infractions commises, à savoir des manquements disciplinaires, et des sanctions encourues (paragraphe 28 ci dessus), les poursuites disciplinaires engagées contre les requérants et les procédures judiciaires subséquentes n'entrent pas dans le champ d'application du volet pénal de l'article 6 de la Convention. Elle rappelle ensuite que dans son arrêt Vilho Eskelinen et autres c. Finlande [GC], no 63235/00, §§ 62 et 63, CEDH 2007 ..., elle a mis en place une présomption d'applicabilité des garanties du volet civil de l'article 6 aux procédures judiciaires opposant des fonctionnaires à l'Etat lorsque la législation interne accorde aux intéressés un droit de recours devant les tribunaux pour faire valoir leurs droits vis-à-vis de la puissance publique. La législation bulgare offrait aux requérants la possibilité de contester leurs licenciements pour motifs disciplinaires devant les juridictions administratives, et ils ont en effet exercé ce recours (paragraphes 9 à 13 ci dessus). Il s'ensuit que l'article 6, dans son volet civil, trouve à s'appliquer en l'espèce.

45. La Cour constate par ailleurs que les griefs des requérants ne sont pas manifestement mal fondés au sens de l'article 35 § 3 de la Convention et qu'ils ne se heurtent à aucun autre motif d'irrecevabilité. Il convient donc de les déclarer recevables.

B. Sur le fond

46. La Cour observe que les allégations des requérants portent sur plusieurs aspects du procès équitable : méconnaissance de la règle de la sécurité juridique ; absence de réponse à leurs arguments pertinents ; non-respect de l'égalité des armes ; exclusion du public des audiences tenues devant la haute juridiction administrative. La Cour estime qu'il y a lieu d'examiner d'abord l'allégation de non-observation du principe de la sécurité juridique.

1. Sur la méconnaissance alléguée du principe de la sécurité juridique

47. La Cour rappelle d'emblée que le principe de la sécurité juridique est implicite dans l'ensemble des articles de la Convention et qu'il constitue l'un des éléments fondamentaux de l'Etat de droit (Beian c. Roumanie (no 1), no 30658/05, § 39, CEDH 2007 ... (extraits)). Certes, les divergences de jurisprudence sont inhérentes à tout système judiciaire qui repose sur un ensemble de juridictions du fond ayant autorité sur leur ressort territorial. Cependant, le rôle d'une juridiction suprême est précisément de régler ces contradictions (Zielinski et Pradal et Gonzalez et autres c. France [GC], no24846/94 et 34165/96 à 34173/96, § 59, CEDH 1999-VII).

48. La Cour a eu l'occasion, dans un certain nombre d'affaires, de se prononcer sur le point de savoir dans quelles conditions des contradictions dans la jurisprudence d'une juridiction nationale suprême portaient atteinte au principe de la sécurité juridique et constituaient une violation de l'article 6 § 1 de la Convention. Dans son arrêt Beian (no 1) précité, elle a constaté que les « divergences profondes et persistantes » créées dans l'interprétation d'une disposition législative par la Haute Cour de cassation du pays défendeur avaient eu pour effet de priver le requérant d'un procès équitable (§§ 34 à 40 de l'arrêt). Dans cette affaire, la Cour a relevé l'absence de mécanisme approprié permettant à la haute juridiction nationale de supprimer les incohérences dans sa jurisprudence (§ 36 de l'arrêt). Dans l'affaire Schwarzkopf et Taussik c. République Tchèque (déc., no 42162/02, 2 décembre 2008), la Cour a rejeté le grief formulé sous l'angle de l'article 6 § 1, en attribuant une importance particulière au fait qu'un tel mécanisme existait en droit tchèque et qu'il avait finalement contribué à l'uniformisation de la jurisprudence des tribunaux peu après la décision interne définitive dont se plaignait les requérants. Le même argument a pesé en faveur du constat de non-violation de l'article 6 § 1 dans l'affaire Pérez Arias c. Espagne (no 32978/03, § 25, 28 juin 2007), où le Tribunal suprême espagnol avait définitivement fixé l'interprétation d'une disposition législative, supprimant ainsi l'incertitude juridique qui avait existé en la matière.

49. Se tournant vers la présente affaire, la Cour, au vu de la jurisprudence précitée, estime qu'il y a lieu de rechercher s'il existait « des divergences profondes et persistantes » dans la jurisprudence de la Cour suprême administrative bulgare ; si la législation interne prévoyait des mécanismes permettant de supprimer ces incohérences ; si ces mécanismes ont été appliqués et quels ont été, le cas échéant, les effets de leur application.

50. La Cour observe que des formations de trois et cinq juges de la Cour administrative suprême ont examiné les affaires des trois requérants peu après celle d'un autre agent du ministère de l'Intérieur, B.B., qui avait été licencié pour les mêmes raisons et les mêmes événements, à savoir la découverte du matériel d'écoute dans l'appartement du procureur général (paragraphes 9 à 13 ci-dessus). Or, dans le cas des requérants, la formation de cinq juges a interprété la législation de manière à exclure l'applicabilité d'un certain nombre de garanties procédurales dans le cadre de l'enquête interne ouverte à leur encontre par le ministre de l'Intérieur, alors que quelques mois auparavant, une autre formation de cinq juges, avec une composition quasiment identique (quatre sur les cinq magistrats), avait adopté une position exactement inverse à l'issue de l'examen du recours de B.B. (paragraphes 12 à 14 ci-dessus).

51. Il ressort de l'aperçu de la jurisprudence pertinente de la Cour administrative suprême entre 2001 et 2005 qu'il existait bel et bien deux interprétations divergentes des dispositions de l'article 240 de la LMI régissant les modalités de l'enquête officielle et de l'enquête interne (paragraphe 32 ci-dessus). Qui plus est, l'existence parallèle de ces deux interprétations contradictoires a persisté après l'adoption des arrêts en la présente affaire (ibidem). Par conséquent, la Cour estime qu'il existait des « divergences profondes et persistantes » dans l'interprétation de la disposition de l'article 240 de la LMI par la juridiction administrative suprême bulgare.

52. La Cour observe ensuite qu'il existait en droit interne un mécanisme susceptible de remédier à cette situation, à savoir la procédure prévue par les articles 44 et 45 de la loi sur la Cour administrative suprême (paragraphe 33 ci-dessus) : la juridiction en cause pouvait être saisie tant par le parquet et le ministre de la Justice que par son propre président d'une demande d'interprétation des disposition pertinentes du droit interne et, en rendant une décision interprétative, elle aurait pu uniformiser sa propre jurisprudence en la matière, ce qui aurait été particulièrement important étant donné qu'il s'agit de la plus haute juridiction administrative du pays. Or cela n'a pas été fait (paragraphe 34 ci-dessus), et l'incertitude jurisprudentielle quant à l'interprétation de l'article 240 de la LMI a persisté après l'adoption des arrêts définitifs de la Cour administrative suprême dans les affaires des trois requérants.

53. La Cour considère que cette incertitude jurisprudentielle persistante a eu pour effet de priver les requérants d'une des garanties essentielles du procès équitable au sens de l'article 6 § 1. Il y a donc eu violation de cette disposition de la Convention.

2. Sur les autres aspects du procès équitable

54. Au vu de cette conclusion, la Cour estime qu'il n'y a pas lieu d'examiner séparément les autres aspects du même grief, à savoir les allégations portant sur l'absence de réponse à tous les arguments pertinents des requérants, la non-observation du principe d'égalité des armes et l'exclusion du public des débats judiciaires (voir, mutatis mutandis, Dima c. Roumanie, no 58472/00, § 42, 16 novembre 2006).

III. SUR LA DURÉE DE LA PROCÉDURE PÉNALE

55. Les requérants se plaignent également de la durée des poursuites pénales engagées à leur encontre. Ils estiment que les autorités chargées des poursuites pénales ont adopté une attitude passive entre août 2000 et juin 2002 et qu'elles n'ont pas mené l'instruction préliminaire avec la célérité nécessaire. Ils invoquent l'article 6 § 1 de la Convention, ainsi libellé dans sa partie pertinente :
« Toute personne a droit à ce que sa cause soit entendue (...) dans un délai raisonnable, par un tribunal (...), qui décidera (...) du bien-fondé de toute accusation en matière pénale dirigée contre elle. » ;

56. Le Gouvernement n'a pas présenté d'observations sur ce point.

A. Sur la recevabilité

57. La Cour rappelle d'emblée que le caractère raisonnable de la durée d'une procédure s'apprécie suivant les circonstances de la cause et eu égard aux critères consacrés par sa jurisprudence, en particulier la complexité de l'affaire, le comportement du requérant et celui des autorités compétentes (voir, parmi beaucoup d'autres arrêts, Pélissier et Sassi c. France [GC], no 25444/94, § 67, CEDH 1999-II).

58. Se tournant vers les circonstances de l'espèce, elle observe que les poursuites pénales ont duré deux ans et onze mois pour M. Ivanov (paragraphes 17 et 20 ci-dessus) et trois ans et un mois pour M. Kirilov (paragraphes 16 et 20 ci-dessus). Au vu des circonstances de l'espèce et compte tenu des critères consacrés par sa jurisprudence, la Cour considère que ces périodes ne dépassent pas les limites du délai raisonnable au sens de l'article 6 § 1 de la Convention et que les griefs de MM. Ivanov et Kirilov sont irrecevables pour défaut manifeste de fondement.

59. La Cour constate en revanche que le grief soulevé par M. Iordanov sous l'angle de l'article susmentionné n'est pas manifestement mal fondé au sens de l'article 35 § 3 de la Convention. Elle relève en outre qu'il ne se heurte à aucun autre motif d'irrecevabilité. Il convient donc de le déclarer recevable.

B. Sur le fond

60. La Cour observe que la procédure pénale menée contre M. Iordanov a duré presque sept ans et cinq mois pour l'instruction préliminaire et trois degrés de juridiction (paragraphes 16 et 22 ci-dessus), ce qui représente en soi un délai considérable. Elle admet que l'enquête pénale en cause se caractérisait par un certain degré de complexité, dans la mesure où elle visait plusieurs personnes soupçonnées de deux infractions pénales distinctes : manquement aux devoirs d'un fonctionnaire et utilisation illicite du matériel d'écoute. Cependant, de l'avis de la Cour, cet élément n'est pas en mesure d'expliquer, à lui seul, la durée considérable de la procédure pénale.

61. Pour ce qui est du comportement du requérant au cours de la procédure, la Cour constate qu'il n'a pas été à l'origine de retards dans le cours des poursuites pénales dirigées contre lui. Elle observe qu'il se plaint que l'enquête ait pris près de deux ans de retard en raison de l'inactivité, entre août 2000 et juin 2002, des organes chargés de mener l'instruction préliminaire. Le gouvernement n'a pas contesté cette affirmation ni apporté d'éléments permettant d'expliquer un tel retard au stade de l'instruction préliminaire. Compte tenu de ces circonstances et des critères élaborés dans sa jurisprudence (paragraphe 57 ci-dessus), la Cour estime que la durée des poursuites pénales contre M. Iordanov a dépassé les limites du délai raisonnable au sens de l'article 6 § 1. Il y a donc eu violation de cette disposition de la Convention.

IV. SUR LA VIOLATION ALLÉGUÉE DE L'ARTICLE 13 DE LA CONVENTION

62. Les requérants se plaignent de l'absence, en droit interne, de voie de recours permettant d'accélérer les poursuites pénales menées à leur encontre. Ils invoquent l'article 13 de la Convention, qui est ainsi libellé :

« Toute personne dont les droits et libertés reconnus dans la (...) Convention ont été violés, a droit à l'octroi d'un recours effectif devant une instance nationale, alors même que la violation aurait été commise par des personnes agissant dans l'exercice de leurs fonctions officielles. »

63. Le Gouvernement n'a pas présenté d'observations sur ce point.

Sur la recevabilité

64. La Cour rappelle que la recevabilité du grief formulé sous l'angle de l'article 13 dépend en premier lieu de l'existence d'un « grief défendable » fondé sur l'un des articles substantiels de la Convention (voir, parmi beaucoup d'autres arrêts, Kudła c. Pologne [GC], no 30210/96, § 157, CEDH 2000 XI). Les requérants ont invoqué l'article 6 § 1 en combinaison avec l'article 13 pour se plaindre de la durée des poursuites pénales ouvertes à leur encontre. Or la Cour a conclu à l'irrecevabilité pour défaut manifeste de fondement du grief formulé par MM. Ivanov et Kirilov sur le terrain de l'article 6 § 1 (paragraphe 58 ci-dessus). Il s'ensuit que, de même, le grief formulé par ces deux requérants sous l'angle de l'article 13 est manifestement mal fondé et doit être rejeté en application de l'article 35 §§ 3 et 4 de la Convention.

65. Pour ce qui est du grief formulé par M. Iordanov, la Cour observe que par une modification du CPP entrée en vigueur en juin 2003, le législateur a introduit un recours visant à remédier aux retards accumulés au stade de l'instruction préliminaire des affaires pénales. Ce recours pouvait être exercé par les personnes faisant l'objet d'une enquête pénale depuis au moins deux ans. Il permettait d'obtenir le renvoi en jugement de l'inculpé, voire sa relaxe, dans un délai de deux mois (paragraphe 37 ci-dessus).

66. La Cour rappelle que, selon sa jurisprudence constante, pour qu'un recours visant à garantir la célérité de la procédure pénale soit effectif, il doit permettre soit de faire intervenir plus tôt la décision des juridictions saisies, soit de fournir aux justiciables une réparation adéquate pour les retards déjà accusés (voir, parmi d'autres arrêts, Granata c. France (no 2), no 51434/99, § 36, 15 juillet 2003). Dans une série d'arrêts rendus dans des affaires contre la Bulgarie, la Cour est parvenue à la conclusion que le recours prévu par l'article 239a du CPP ne pouvait être considéré comme une voie de recours effective au sens de l'article 13 combiné avec l'article 6 § 1 en raison notamment des retards importants accumulés dans le traitement des affaires pénales avant l'entrée en vigueur de cette disposition législative (voir Sidjimov c. Bulgarie, no 55057/00, § 40, 27 janvier 2005 ; Karov c. Bulgarie, no 45964/99, § 74, 16 novembre 2006 ; Atanassov et Ovtcharov c. Bulgarie, no 61596/00, § 58, 17 janvier 2008 ; Yankov c. Bulgarie (no 2), no 70728/01, § 57 in fine, 7 février 2008). Elle constate toutefois que le cas de M. Iordanov est différent de ceux des requérants dans les affaires précitées.

67. En juin 2003, lorsque l'article 239a du CPP est entré en vigueur, l'enquête pénale contre M. Iordanov était pendante depuis deux ans et onze mois, ce qui lui permettait d'intenter le recours prévu par cet article. Si le requérant avait exercé ce recours, il aurait pu être traduit devant le tribunal de première instance ou relaxé au plus tard en septembre ou en octobre 2003 (voir mutatis mutandis Gantchev c. Bulgarie, no 57855/00, § 33, 12 avril 2007). Force est de constater qu'il n'a pas présenté d'arguments susceptibles d'amener la Cour à la conclusion que cette voie de recours aurait été inefficace dans son cas. Dans ces conditions, la Cour estime que le grief formulé par M. Iordanov sous l'angle de l'article 13 combiné avec l'article 6 § 1 est manifestement mal fondé et doit être rejeté en application de l'article 35 §§ 3 et 4 de la Convention.

V. SUR LA VIOLATION ALLÉGUÉE DE L'ARTICLE 2 DU PROTOCOLE No 4

68. Les requérants se plaignent de l'interdiction de quitter le territoire bulgare dont ils font l'objet, interdiction qui s'analyserait en une ingérence injustifiée dans l'exercice de leur liberté de circulation. Ils admettent que la mesure litigieuse était prévue par la législation interne, mais contestent sa nécessité. Ils invoquent l'article 2 du Protocole no 4, qui est ainsi libellé :

« 1. Quiconque se trouve régulièrement sur le territoire d'un Etat a le droit d'y circuler librement et d'y choisir librement sa résidence.

2. Toute personne est libre de quitter n'importe quel pays, y compris le sien.

3. L'exercice de ces droits ne peut faire l'objet d'autres restrictions que celles qui, prévues par la loi, constituent des mesures nécessaires, dans une société démocratique, à la sécurité nationale, à la sûreté publique, au maintien de l'ordre public, à la prévention des infractions pénales, à la protection de la santé ou de la morale, ou à la protection des droits et libertés d'autrui.

4. Les droits reconnus au paragraphe 1 peuvent également, dans certaines zones déterminées, faire l'objet de restrictions qui, prévues par la loi, sont justifiées par l'intérêt public dans une société démocratique. ».

69. Le gouvernement n'a pas formulé de commentaire sur ce point.

Sur la recevabilité

70. La Cour rappelle que l'article 2 du Protocole no 4 à la Convention garantit le droit à la liberté de circulation ; ce qui implique le droit de quitter un pays pour se rendre dans un autre pays dans lequel on pourrait être autorisé à entrer. Toute mesure restreignant ce droit doit être prévue par la loi, poursuivre l'un des buts légitimes visés au troisième paragraphe de l'article susmentionné et ménager un juste équilibre entre l'intérêt général et les droits de l'individu (voir Baumann c. France, no 33592/96, § 61, CEDH 2001 V (extraits) et Földes et Földesné Hajlik c. Hongrie, no 41463/02, § 32, CEDH 2006 ... ).

71. La Cour observe que l'interdiction de quitter le territoire était prévue par le droit interne et que les requérants n'ont contesté ni la prévisibilité ni l'accessibilité de la législation bulgare pertinente (paragraphes 35, 36 et 68 ci-dessus). Elle ne voit pas de raison d'arriver à une conclusion différente.

72. En ce qui concerne la légitimité du but visé par la mesure imposée, la Cour note que celle-ci a été prise dans le cadre de poursuites pénales ouvertes contre les requérants. Dans ces circonstances et au vu du fait que les intéressés ont été libérés sous caution peu de temps après le début de l'enquête pénale (paragraphe 18 ci-dessus), elle admet que l'interdiction de quitter le territoire visait à assurer leur comparution devant les juridictions pénales compétentes, et relevait donc du maintien de l'ordre public.

73. La Cour observe ensuite que cette interdiction n'était pas absolue : les requérants avaient la possibilité de demander à tout moment l'autorisation de quitter le territoire, et de contester l'éventuel refus des organes compétents devant un tribunal (paragraphe 35 ci-dessus). Or ils n'ont pas démontré qu'ils avaient sollicité une telle autorisation et qu'ils avaient essuyé un refus des autorités compétentes.

74. De surcroît, depuis le 29 avril 2006, date d'entrée en vigueur du NCPP, M. Iordanov pouvait demander au tribunal compétent de lever l'interdiction au motif qu'il n'y avait pas de risque qu'il se soustraie à la justice (paragraphe 36 ci-dessus). Or il n'a pas précisé s'il s'est prévalu de cette possibilité.

75. Au vu de ce qui précède, la Cour estime que les éléments dont elle dispose ne lui permettent pas de constater qu'il n'a pas été ménagé en l'occurrence un juste équilibre entre l'intérêt général et la liberté de circulation des requérants. Dès lors, elle conclut que leur grief tiré de l'article 2 du Protocole no 4 est manifestement mal fondé et doit être rejeté en application de l'article 35 §§ 3 et 4 de la Convention.

VI. SUR L'APPLICATION DE L'ARTICLE 41 DE LA CONVENTION

76. Aux termes de l'article 41 de la Convention,

« Si la Cour déclare qu'il y a eu violation de la Convention ou de ses Protocoles, et si le droit interne de la Haute Partie contractante ne permet d'effacer qu'imparfaitement les conséquences de cette violation, la Cour accorde à la partie lésée, s'il y a lieu, une satisfaction équitable. »

A. Dommage

77. MM. Iordanov et Ivanov réclament, pour préjudice matériel, 79 450 et 87 850 levs bulgares (BGN) respectivement, soit l'équivalent des salaires qu'ils auraient perçus comme agents du ministère de l'Intérieur s'ils n'avaient pas été licenciés. Ils demandent également 16 000 BGN chacun pour préjudice moral.

78. Les trois héritières de M. Kirilov sollicitent chacune la somme de 20 000 BGN pour le préjudice moral qu'aurait subi leur père et époux.

79. Les requérants estiment que le redressement le plus approprié de la violation de leur droit à un procès équitable serait la réouverture des procédures judiciaires de contestation de leurs licenciements.

80. Le Gouvernement n'a pas présenté d'observations sur l'application de l'article 41 de la Convention.

81. La Cour n'aperçoit pas de lien de causalité entre la violation constatée et le dommage matériel allégué par MM. Iordanov et Ivanov, et rejette leur demande à ce titre.

82. Elle considère en revanche que les trois requérants ont subi un certain dommage moral du fait de la violation de leur droit à un procès équitable, et que M. Iordanov a subi de surcroît un dommage moral du fait de la durée excessive des poursuites pénales menées contre lui. Statuant en équité en vertu de l'article 41 de la Convention, elle accorde 4 500 EUR à M. Iordanov, 4 000 EUR à M. Ivanov et 4 000 EUR, conjointement, aux héritières de M. Kirilov.

83. La Cour rappelle également que, selon sa jurisprudence bien établie, il faut, en cas de violation de l'article 6 de la Convention, placer le requérant, le plus possible, dans une situation équivalant à celle dans laquelle il se trouverait s'il n'y avait pas eu manquement aux exigences de cette disposition (Piersack c. Belgique (article 50), 26 octobre 1984, § 12, série A no 85). Un arrêt constatant une violation entraîne pour l'Etat défendeur l'obligation juridique, non seulement de verser à l'intéressé les sommes allouées à titre de satisfaction équitable, mais aussi de choisir, sous le contrôle du Comité des Ministres du Conseil de l'Europe, les mesures générales et/ou, le cas échéant, individuelles à adopter dans son ordre juridique interne afin de mettre un terme à la violation constatée par la Cour et d'en effacer dans la mesure du possible les conséquences de manière à rétablir autant que faire se peut la situation antérieure à celle-ci (Ilaşcu et autres c. Moldova et Russie [GC], no 48787/99, § 487, CEDH 2004 VII). En particulier, dans les cas de non-observation d'une des garanties de l'article 6 § 1 de la Convention, le redressement le plus approprié consiste, en principe, à rejuger l'affaire ou à rouvrir la procédure en temps utile et dans le respect des exigences de l'article 6 (voir Lungoci c. Roumanie, no 62710/00, § 56, 26 janvier 2006, et Yanakiev c.Bulgarie, no 40476/98, § 90, 10 août 2006, pour le droit d'accès à un tribunal ; Somogyi c. Italie, no 67972/01, § 86, CEDH 2004 IV, pour le droit de participer au procès ; et Gençel c. Turquie, no 53431/99, § 27, 23 octobre 2003, et Tahir Duran c. Turquie, no 40997/98, § 23, 29 janvier 2004, pour le manque d'indépendance et d'impartialité de la juridiction de jugement).

84. En l'espèce, la Cour observe que lorsqu'elle a constaté une violation de l'une des dispositions de la Convention, l'article 239 point 6 du code de procédure administrative permet la réouverture de la procédure devant les juridictions administratives à la demande de la partie intéressée. Cette disposition semble donc permettre à MM. Iordanov et Ivanov de voir leurs affaires rejugées. Un doute subsiste cependant sur le point de savoir si la même possibilité est ouverte, pour la procédure judiciaire concernant le licenciement de M. Kirilov, à ses héritières. Quoi qu'il en soit, au vu de la nature de la violation constatée de l'article 6 § 1 de la Convention (paragraphe 53 ci-dessus) et compte tenu des circonstances particulières de l'espèce, la Cour estime que le redressement le plus approprié serait de rouvrir les procédures judiciaires concernant les licenciements des trois requérants.

B. Frais et dépens

85. Les requérants demandent également 4 760 EUR pour les frais et dépens engagés devant la Cour, soit l'équivalent de 68 heures de travail d'avocat au tarif horaire de 70 EUR. Ils ont présenté le contrat passé avec leur avocat, qui prévoit le versement sur le compte bancaire de celui-ci de la somme octroyée par la Cour à titre de frais et dépens.

86. Le Gouvernement n'a pas formulé de commentaires sur ce point.

87. Selon la jurisprudence de la Cour, un requérant ne peut obtenir le remboursement de ses frais et dépens que dans la mesure où se trouvent établis leur réalité, leur nécessité et le caractère raisonnable de leur taux. En l'espèce et compte tenu des documents en sa possession, des critères susmentionnés et du fait que certains des griefs formulés ont été déclarés irrecevables, la Cour estime raisonnable d'octroyer pour la procédure devant elle la somme de 3 000 EUR, à verser sur le compte bancaire du représentant des requérants.

C. Intérêts moratoires

88. La Cour juge approprié de calquer le taux des intérêts moratoires sur le taux d'intérêt de la facilité de prêt marginal de la Banque centrale européenne majoré de trois points de pourcentage.

PAR CES MOTIFS, LA COUR, À L'UNANIMITÉ,

1. Déclare la requête recevable quant aux griefs tirés de l'article 6 § 1, relatifs à l'équité des procédures judiciaires concernant les licenciements des requérants et à la durée de la procédure pénale menée contre M. Iordanov, et irrecevable pour le surplus ;

2. Dit qu'il y a eu violation de l'article 6 § 1 de la Convention en raison de la non-observation du principe de la sécurité juridique dans le cadre des procédures judiciaires de contestation des licenciements des trois requérants ;

3. Dit qu'il n'y a pas lieu d'examiner les autres aspects de l'équité des procédures concernant les licenciements des requérants ;

4. Dit qu'il y a eu violation de l'article 6 § 1 de la Convention en raison de la durée de la procédure pénale menée contre M. Iordanov ;

5. Dit

a) que l'Etat défendeur doit verser aux requérants, dans les trois mois à compter du jour où l'arrêt sera devenu définitif conformément à l'article 44 § 2 de la Convention, les sommes suivantes, à convertir en levs bulgares au taux applicable à la date du règlement :

i. 4 500 EUR (quatre mille cinq cents euros), plus tout montant pouvant être dû à titre d'impôt, pour dommage moral, à verser à M. Iordanov ;

ii. 4 000 EUR (quatre mille euros), plus tout montant pouvant être dû à titre d'impôt, pour dommage moral, à verser à M. Ivanov ;

iii. 4 000 EUR (quatre mille euros), plus tout montant pouvant être dû à titre d'impôt, pour dommage moral, à verser aux héritières de M. Kirilov ;

iv. 3 000 EUR (trois mille euros), plus tout montant pouvant être dû à titre d'impôt par les requérants, pour frais et dépens, à verser sur le compte bancaire de leur représentant ;

b) qu'à compter de l'expiration dudit délai et jusqu'au versement, ces montants seront à majorer d'un intérêt simple à un taux égal à celui de la facilité de prêt marginal de la Banque centrale européenne applicable pendant cette période, augmenté de trois points de pourcentage ;

6. Rejette la demande de satisfaction équitable pour le surplus.

Fait en français, puis communiqué par écrit le 2 juillet 2009, en application de l'article 77 §§ 2 et 3 du règlement.

Claudia Westerdiek Peer Lorenzen

Greffière Président