martedì 13 novembre 2012

 

L'applicazione del metodo dell'imputazione ai dividendi di origine estera prevista dalla normativa tributaria britannica non garantisce un trattamento fiscale equivalente a quello risultante dall'applicazione del metodo dell'esenzione ai dividendi di origine nazionale

La Corte precisa altresì l'ambito di applicazione delle disposizioni del Trattato relative alla libera circolazione dei capitali



Nel Regno Unito, quando una società residente percepisce dividendi di origine nazionale, non è assoggettata all'imposta sulle società a titolo di tali dividendi (metodo dell'esenzione). Per contro, quando una società residente percepisce dividendi da una società non residente, è assoggettata all'imposta sulle società a titolo di tali dividendi. Essa può tuttavia portare in detrazione da tale onere fiscale l’imposta che la società distributrice ha già pagato nel suo Stato di residenza sugli utili così distribuiti (metodo dell'imputazione).

Alcune società stabilite nel Regno Unito che hanno percepito dividendi da controllate residenti in un altro Stato contestano dinanzi ai giudici britannici la compatibilità con il diritto dell'Unione del trattamento fiscale riservato dalla normativa britannica ai dividendi di origine estera. Esse sostengono che la normativa nazionale porta ad un trattamento fiscale meno vantaggioso per le società residenti che hanno delle controllate in altri Stati.

Su domanda della High Court of Justice (Regno Unito), la Corte di giustizia ha già esaminato, nel 2006, la normativa britannica in questione, dichiarando che quest'ultima era contraria al diritto dell'Unione per vari aspetti

1. Nella presente causa, il giudice britannico chiede alla Corte di chiarire tale giurisprudenza.

Nella sua sentenza odierna, la Corte ricorda che il diritto dell'Unione consente in linea di principio ad uno Stato membro di applicare ai dividendi di origine nazionale il metodo dell'esenzione e ai dividendi di origine estera il metodo dell'imputazione. Infatti, può ritenersi in generale che questi due metodi siano equivalenti. La Corte precisa però che tale equivalenza può essere compromessa. Infatti, nel caso di una distribuzione di dividendi di origine nazionale, questi ultimi sono esentati dall'imposta sulle società per quanto riguarda la società beneficiaria indipendentemente dall'imposta effettivamente pagata dalla società distributrice. Per contro, nel caso di una distribuzione di dividendi di origine estera, il credito d'imposta di cui fruisce la società beneficiaria per effetto dell'applicazione del metodo dell'imputazione viene determinato tenendo conto del livello di imposizione effettivo sugli utili nello Stato di origine.

Pertanto, in una situazione siffatta, l'esenzione fiscale dei dividendi di origine nazionale non dà luogo ad alcun onere fiscale in capo alla società residente che li riceve, indipendentemente dal livello di imposizione effettivo cui sono stati assoggettati gli utili sulla base dei quali i dividendi sono stati pagati. Per contro, l'applicazione del metodo dell'imputazione ai dividendi di origine estera conduce ad un onere fiscale supplementare in capo alla società beneficiaria residente, se il livello di imposizione effettivo applicato agli utili della società distributrice non raggiunge l'aliquota
d'imposta nominale cui sono assoggettati gli utili della società residente beneficiaria. Pertanto, contrariamente al metodo dell'esenzione, il metodo dell'imputazione non consente di trasmettere alla società azionista il beneficio degli abbattimenti, in materia di imposta sulle società, concessi a monte alla società distributrice.

La Corte rileva nondimeno che l’equivalenza del metodo dell’esenzione e di quello dell’imputazione non risulta senz’altro compromessa ove sussistano casi eccezionali nei quali determinati dividendi di origine nazionale vengono esentati malgrado che gli utili sulla base dei quali tali dividendi sono stati pagati non siano stati assoggettati interamente ad un livello di imposizione effettivo corrispondente all’aliquota d’imposta nominale. Tuttavia, secondo le informazioni fornite dalla High Court, il livello di imposizione effettivo sugli utili delle società residenti nel Regno Unito è inferiore nella maggior parte dei casi all'aliquota d'imposta nominale applicabile in tale Stato membro. Ne consegue che l'applicazione del metodo dell'imputazione ai dividendi di origine estera, quale prevista dalla normativa in questione, non garantisce un trattamento fiscale equivalente a quello risultante dall'applicazione del metodo dell'esenzione ai dividendi di origine nazionale. La normativa britannica deve quindi essere qualificata come restrizione della libertà di stabilimento e dei movimenti di capitali vietata dal TFUE.

La Corte constata che l'obiettivo perseguito dalla normativa nazionale, di preservare la coerenza del regime fiscale nazionale, avrebbe potuto essere raggiunto mediante misure meno restrittive. Essa sottolinea che l'esenzione fiscale di cui beneficia una società residente che percepisce dividendi di origine nazionale è fondata sull'ipotesi di un'imposizione, in capo alla società distributrice dei dividendi, gravante sugli utili distribuiti in base all'aliquota d'imposta nominale. L'esenzione si avvicina dunque alla concessione di un credito d’imposta calcolato mediante riferimento a tale aliquota d’imposta nominale, così che il legislatore britannico, al fine di preservare la coerenza del regime fiscale, avrebbe potuto tener conto, anche nell'ambito del metodo dell'imputazione, dell'aliquota d'imposta nominale applicabile alla società distributrice, e non dell'imposta effettivamente pagata da tale società.

Il giudice del rinvio desidera altresì sapere se una società residente di uno Stato membro, la quale detenga una partecipazione di controllo in una società stabilita in un paese terzo, possa avvalersi delle disposizioni del Trattato relative alla libera circolazione dei capitali al fine di mettere in discussione la conformità con il diritto dell'Unione del trattamento fiscale riservato dalla legislazione del suddetto Stato membro ai dividendi pagati da tale controllata. Secondo la Corte, in un contesto relativo al trattamento fiscale di dividendi originari di un paese terzo, l'esame dell'oggetto della legislazione tributaria di cui trattasi è sufficiente per valutare se quest'ultima ricada sotto le disposizioni del Trattato relative alla libera circolazione dei capitali. Qualora dall'oggetto di tale legislazione nazionale risulti che essa è destinata ad applicarsi soltanto alle partecipazioni che consentono di esercitare una sicura influenza sulle decisioni della società interessata e di determinare le attività di quest’ultima, né le disposizioni del Trattato relative alla libertà di stabilimento, né quelle relative alla libera circolazione dei capitali possono essere invocate.



martedì 6 novembre 2012

La Corte respinge la domanda della Odile Jacob diretta all’annullamento della sentenza del Tribunale che aveva dichiarato compatibile con il mercato comune l’acquisto della Vivendi Universal Publishing da parte della Lagardère

 



Sentenze nella causa C-551/10 P Éditions Odile Jacob / Commissione e nelle cause riunite C-553/10 P Commissione / Éditions Odile Jacob e C-554/10 P Lagardère / Éditions Odile Jacob

La Corte respinge la domanda della Odile Jacob diretta all’annullamento della sentenza del Tribunale che aveva dichiarato compatibile con il mercato comune l’acquisto della Vivendi Universal Publishing da parte della Lagardère

La Corte conferma l’annullamento della decisione di autorizzazione della Wendel Investissement quale acquirente degli attivi retroceduti della Vivendi Universal Publishing



Nel settembre del 2002, la Vivendi Universal («VU») ha ceduto le proprie attività di editoria libraria detenute in Europa tramite la sua controllata Vivendi Universal Publishing («VUP»), principale editore francofono. Il gruppo Lagardère si è candidato per l’acquisto di tali attività. È tuttavia emerso che la VU intendeva realizzare la vendita in tempi brevi, senza attendere la previa autorizzazione delle competenti autorità della concorrenza. La Lagardère ha quindi chiesto alla Natexis Banques Populaires SA («NBP») di sostituirsi ad essa tramite una delle sue controllate creata ai fini dell’acquisizione degli elementi dell’attivo in offerta presso la VUP, della loro detenzione a titolo provvisorio e quindi, una volta ottenuta l’autorizzazione del progetto di acquisizione degli elementi dell’attivo da parte della Lagardère, della loro rivendita a quest’ultima (operazione di conferimento fiduciario).

Il 14 aprile 2003, la Lagardère ha proceduto alla notifica alla Commissione del suo progetto di acquisto degli elementi dell’attivo della VUP.



Con decisione del 7 gennaio 2004 1 la Commissione ha autorizzato l’operazione di concentrazione con riserva dell’assunzione da parte della Lagardère di alcuni impegni. La Commissione ha ritenuto che, in assenza di tali impegni, l’operazione di concentrazione avrebbe portato, su numerosi mercati, alla creazione o al rafforzamento di posizioni dominanti da cui sarebbe risultato un ostacolo significativo a una concorrenza effettiva La Lagardère si è pertanto impegnata a retrocedere una parte considerevole degli elementi dell’attivo della VUP e ha preso contatto con diverse imprese che avrebbero potuto rilevarli. Tra queste ultime figurava la società Éditions Odile Jacob («Odile Jacob») che ha manifestato il suo interesse per l’operazione.
In esito al procedimento di selezione dell’acquirente degli attivi retroceduti della VUP, la Lagardère ha scelto l’offerta di un’altra impresa, la Wendel Investissement.

Nel febbraio del 2004, in seguito all’approvazione della Commissione, la Lagardère ha nominato lo studio di revisione contabile S. in qualità di mandatario. Il 5 luglio 2004, questo ha presentato alla Commissione un rapporto in cui concludeva che l’acquisto degli elementi dell’attivo da parte della Wendel Investissement era compatibile con i criteri fissati dalla Commissione. Di conseguenza, con

decisione del 30 luglio 2004 la Commissione ha approvato l’acquisito degli elementi dell’attivo da parte della Wendel Investissement (decisione di autorizzazione)2.
La Odile Jacob ha adito il Tribunale per ottenere l’annullamento della decisione del 7 gennaio 2004 che autorizzava la concentrazione VUP/Lagardère, nonché della decisione del 30 luglio 2004 che autorizzava la Wendel Investissement quale acquirente degli attivi retroceduti.

Con due sentenze pronunciate il 13 settembre 2010, il Tribunale ha respinto il ricorso proposto dalla Odile Jacob contro la decisione del 7 gennaio 2004 e ha deciso di annullare la decisione di autorizzazione del 30 luglio 2004
3. Queste due sentenze sono state oggetto di impugnazioni distinte dinanzi alla Corte.

Per quanto riguarda la prima causa (C-551/10 P), la Corte respinge l’impugnazione proposta dalla Odile Jacob


. L’editore criticava in particolare il Tribunale per avere commesso un errore di valutazione della nozione di concentrazione e di qualificazione dell’operazione di conferimento fiduciario. A tale proposito, la Corte conferma che la qualificazione giuridica dell’operazione di conferimento fiduciario non incide sulla legittimità della decisione della Commissione.

La Corte considera che, anche supponendo che le transazioni effettuate abbiano permesso alla Lagardère di acquisire prima il controllo, unico o congiunto con la NBP, degli elementi dell’attivo in offerta, tale circostanza non avrebbe comportato altra conseguenza se non la constatazione del ritardo con il quale la notifica dell’operazione di concentrazione è stata effettuata
.

La Corte precisa che, sebbene tali constatazioni possano eventualmente comportare sanzioni previste dal diritto dell’Unione
in particolare l’imposizione di un’ammenda esse non possono sfociare nell’annullamento della decisione della Commissione, non avendo alcuna incidenza sulla compatibilità dell’operazione di concentrazione con il mercato comune.

Per quanto concerne le altre cause (C-553/10 P e C-554/10 P), la Corte respinge l’impugnazione proposta dalla Commissione e dalla Lagardère contro la sentenza con cui il Tribunale ha annullato la decisione di autorizzazione della Wendel Investissement


. La Corte rammenta anzitutto che il mandatario dev’essere indipendente dalla Lagardère e dalla VUP e non essere esposto a conflitti d’interesse. La Corte rileva che, nella fattispecie, giustamente il Tribunale ha valutato che il mandatario, B., in qualità di presidente dello studio S., aveva esercitato le funzioni di membro del comitato esecutivo dell’entità giuridica incaricata di gestire gli attivi retroceduti e che tale medesimo studio era stato nominato mandatario. Pertanto, per un certo periodo, B. ha esercitato contemporaneamente le funzioni di mandatario indipendente e di membro del comitato esecutivo della VUP. La Corte conclude che il Tribunale non ha commesso errori nel decidere che il mandatario non rispondeva alla condizione di indipendenza richiesta dagli impegni della Lagardère, circostanza sufficiente a giustificare l’annullamento della decisione di autorizzazione.

In particolare, è stato contestato al Tribunale di non avere esaminato se tale assenza di indipendenza abbia influito in concreto sulla decisione della Commissione, ovvero se, in mancanza di tale irregolarità, la decisione avrebbe potuto avere un contenuto diverso. La Corte rileva che la mancanza d’indipendenza è di per sé sufficiente per annullare la decisione della Commissione. Avendo accertato che il mandatario non era indipendente dalle parti, il Tribunale non era obbligato a esaminare se questi avesse agito in concreto con modalità attestanti la sua mancanza di indipendenza.

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1 Decisione della Commissione, del 7 gennaio 2004, 2004/422/CE che dichiara un'operazione di concentrazione compatibile con il mercato comune e con il funzionamento dell'accordo sullo Spazio economico europeo (Caso COMP/M.2978 — Lagardère/Natexis/VUP) (GU L 125, pag. 54).

2 Decisione (2004) D/203365 della Commissione, del 30 luglio 2004, relativa all’autorizzazione della Wendel Investissement quale acquirente degli attivi ceduti conformemente alla decisione 2004/422/CE della Commissione


La Carta dei diritti fondamentali non osta a che la Commissione intenti, in nome dell’Unione, dinanzi a un giudice nazionale, un’azione di risarcimento dei danni subiti dall’Unione a seguito di un’intesa o di una pratica contraria al diritto dell’Unione- Sentenza nella causa C-199/11

 

La Carta dei diritti fondamentali non osta a che la Commissione intenti, in nome dell’Unione, dinanzi a un giudice nazionale, un’azione di risarcimento dei danni subiti dall’Unione a seguito di un’intesa o di una pratica contraria al diritto dell’Unione

Quando la Commissione europea emana una decisione che dichiara l'esistenza di un accordo anticoncorrenziale, tale decisione vincola i pubblici poteri e fra questi i giudici nazionali.

Nel febbraio 20071, la Commissione ha inflitto ammende per un importo complessivo di più di 992 milioni di euro ai gruppi Otis, Kone, Schindler e ThyssenKrupp per la loro partecipazione ad intese sul mercato della vendita, dell'installazione, della manutenzione e dell'ammodernamento di ascensori e di scale mobili in Belgio, Germania, Lussemburgo e Paesi Bassi.

Le società interessate hanno chiesto l’annullamento di tale decisione al Tribunale dell'Unione europea. Con sentenze del 13 luglio 2011
2, il Tribunale ha respinto i ricorsi presentati dalle società Otis, Kone e Schindler. Per le società del gruppo ThyssenKrupp, il Tribunale ha deciso di ridurre le ammende loro inflitte.

Alcune società di questi quattro gruppi hanno impugnato le sentenze del Tribunale dinanzi alla Corte di giustizia per ottenerne l'annullamento 3.
Parallelamente, nel giugno 2008, la Commissione, in qualità di rappresentante dell'Unione Europea (all'epoca denominata Comunità europea) ha proposto dinanzi al tribunal de commerce de Bruxelles (Belgio), un'azione chiedendo che le società Otis, Kone, Schindler e ThyssenKrupp fossero condannate a pagare la somma di EUR 7 061 688. La Commissione ha fatto valere che l'Unione europea aveva subito un danno economico, in Belgio e in Lussemburgo, a causa dell'intesa cui tali società avevano partecipato. L'Unione europea aveva infatti aggiudicato vari appalti pubblici per l’installazione, la manutenzione e l’ammodernamento di ascensori e scale mobili in diversi edifici delle Istituzioni europee aventi sede in questi due paesi, il cui prezzo
sarebbe stato superiore a quello di mercato a causa dell'intesa dichiarata illegittima dalla Commissione.

In questo contesto, il tribunal de commerce de Bruxelles ha deciso di sottoporre diverse questioni pregiudiziali alla Corte. In primo luogo, esso chiede se la Commissione sia legittimata a rappresentare l'Unione dinanzi al giudice nazionale nello specifico ambito di questa causa.

A questo proposito, la Corte considera che, atteso che il ricorso è stato introdotto prima dell’entrata in vigore del Trattato sul funzionamento dell'Unione Europea (TFUE), la rappresentanza dell’Unione è disciplinata dal Trattato che istituisce la Comunità europea (CE). Pertanto,
la Commissione è legittimata a rappresentare la Comunità dinanzi al giudice nazionale senza che sia necessario che essa disponga di uno specifico mandato a tal fine.

In secondo luogo, il giudice nazionale chiede se la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea osti a che la Commissione intenti – in qualità di rappresentante dell’Unione – un’azione di risarcimento dei danni subiti dall’Unione a seguito di un comportamento anticoncorrenziale la cui illegittimità sia stata accertata con una decisione di tale istituzione.

La Corte ricorda anzitutto che chiunque ha il diritto di chiedere il risarcimento del danno subìto quando sussiste un nesso di causalità tra tale danno e un’intesa o una pratica vietata e che tale diritto spetta pertanto anche all’Unione.

Questo diritto deve tuttavia essere esercitato nell’osservanza dei diritti fondamentali delle parti, come garantiti, segnatamente, dalla Carta. Per quanto riguarda, in particolare, il diritto alla tutela giurisdizionale effettiva, la Corte ricorda che tale diritto è costituito da diversi elementi tra cui, tra l’altro, il diritto di ricorso ad un giudice e il principio della parità delle armi.

In tema di diritto di ricorso ad un giudice, la Corte rileva che la regola secondo cui i giudici nazionali sono vincolati dalla dichiarazione di illegittimità di un comportamento avvenuta tramite una decisione della Commissione non implica che le parti non abbiano il diritto di ricorso ad un giudice. In proposito, la Corte sottolinea che
il diritto dell’Unione prevede un sistema di controllo giurisdizionale delle decisioni della Commissione in materia di concorrenza che offre tutte le garanzie richieste dalla Carta dei diritti fondamentali.

La Corte rileva altresì che, sebbene i giudici nazionali siano vincolati da quanto la Commissione ha accertato in merito all'esistenza di un comportamento anticoncorrenziale, essi rimangono tuttavia gli unici competenti a valutare la sussistenza del danno e del nesso di causalità diretta tra tale comportamento ed il danno subito. Anche quando la Commissione ha ritenuto necessario precisare gli effetti dell’infrazione nella sua decisione,
spetta pur sempre al giudice nazionale determinare individualmente il danno cagionato a ciascuno dei soggetti che hanno intentato un’azione di risarcimento. Per questi motivi, la Commissione non è parte e giudice in causa propria.

Infine, per quanto riguarda il principio della parità delle armi, la Corte ricorda che esso è inteso ad assicurare l’equilibrio tra le parti del processo, garantendo così che qualsiasi documento prodotto dinanzi al giudice possa essere esaminato e contestato da ciascuna di esse. Orbene, la Corte osserva che, nel caso di specie, le informazioni raccolte dalla Commissione nel corso del procedimento di infrazione — informazioni di cui le società ricorrenti affermano di non essere state a conoscenza — non sono state fornite al giudice nazionale dalla Commissione. Ad ogni modo, il
diritto dell’Unione vieta di utilizzare le informazioni raccolte nel corso di un’indagine in materia di concorrenza per scopi che esulino da tale indagine.

Alla luce di tali considerazioni, la Corte giunge alla conclusione che la Carta dei diritti fondamentali non osta a che la Commissione intenti, in nome dell’Unione, dinanzi a un giudice nazionale, un’azione di risarcimento dei danni subiti dall’Unione a seguito di un’intesa o di una pratica contraria al diritto dell’Unione.
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1 Decisione C(2007) 512 def. della Commissione, del 21 febbraio 2007, relativa a un procedimento ai sensi dell’articolo 81 [CE] (Caso COMP/E-1/38.823 – Ascensori e scale mobili), di cui è stato pubblicato un sunto nella Gazzetta ufficiale dell'Unione Europea (GU 2008, C 75, pag. 19).
2 Sentenze nella causa Schindler Holding Ltd e a./Commissione (T-138/07); nelle cause riunite General Technic-Otis Sàrl/Commissione (T-141/07), General Technic Sàrl/Commissione (T-142/07), Otis SA e a./Commissione (T-145/07), e United Technologies Corp./Commissione (T-146/07); nelle cause riunite ThyssenKrupp Liften Ascenseurs NV/Commissione (T-144/07), ThyssenKrupp Aufzüge GmbH e a./Commissione (T-147/07), ThyssenKrupp Ascenseurs Luxembourg Sàrl/Commissione (T-154/07), ThyssenKrupp Liften BV/Commissione (T-148/07), ThyssenKrupp Elevador AG/Commissione (T-149/07), e ThyssenKrupp AG/Commissione (T-150/07), nonché nella causa Kone Oyj e a./Commissione (T-151/07), (v. anche comunicato stampa n. 72/11).
3 Cause pendenti: Schindler Holding Ltd e a./Commissione (C-501/11 P) e Kone e a./Commissione (C-510/11 P).
Cause cancellate dal ruolo con ordinanze: ordinanze del 24 aprile 2012, ThyssenKrupp Liften Ascenseurs / Commissione (C-516/11 P) e ThyssenKrupp Liften / Commissione (C-519/11 P); ordinanze dell'8 maggio 2012, ThyssenKrupp Ascenseurs Luxembourg / Commissione (C-504/11 P), ThyssenKrupp Elevator / Commissione (C-505/11 P) e ThyssenKrupp / Commissione (C-506/11 P).
Cause concluse: ordinanze del 15 giugno 2012, United Techologies (C-493/11 P) e Otis Luxembourg e a./Commissione (C-494/11 P).



 

 
 



Sentenza nella causa C-286/12 - Il radicale abbassamento dell'età pensionabile dei giudici ungheresi costituisce una discriminazione fondata sull'età non giustificata

 



Sentenza nella causa C-286/12

Il radicale abbassamento dell'età pensionabile dei giudici ungheresi costituisce una discriminazione fondata sull'età non giustificata

Tale misura non è proporzionata alle finalità perseguite dal legislatore ungherese dirette ad uniformare l'età pensionabile delle professioni del servizio pubblico e a instaurare una ripartizione più equilibrata delle fasce di età nel settore giudiziario



In Ungheria, sino al 31 dicembre 2011, i giudici, i procuratori ed i notai potevano restare in servizio sino all'età di 70 anni. Tuttavia, a seguito della modifica della normativa ungherese sopravvenuta nel 2011, a partire dal 1º gennaio 2012 i giudici e i procuratori che abbiano raggiunto l'età pensionabile generale (62 anni), devono cessare il servizio. Per i giudici e i procuratori che abbiano compiuto tale età entro il 1° gennaio 2012, la normativa ungherese fissa la data di cessazione del servizio al 30 giugno 2012. Coloro che compiono tale età tra il 1º gennaio 2012 ed il 31 dicembre 2012 devono cessare il servizio il 31 dicembre 2012. A partire dal 1º gennaio 2014, i notai devono parimenti cessare di esercitare l'attività il giorno in cui raggiungono l'età pensionabile generale.

Ritenendo che un abbassamento così rapido e radicale dell'età pensionabile obbligatoria costituisca una discriminazione fondata sull'età, vietata dalla direttiva sulla parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro

1, a discapito dei giudici, dei procuratori e dei notai che abbiano raggiunto tale età rispetto a coloro che possono rimanere in attività, la Commissione ha proposto un ricorso per inadempimento nei confronti dell'Ungheria.

La Corte di giustizia ha accolto la domanda della Commissione di esaminare tale causa mediante procedimento accelerato, circostanza che ha consentito la riduzione della durata del procedimento a cinque mesi.

La Corte constata, innanzitutto, che i giudici, i procuratori ed i notai che abbiano compiuto l'età di 62 anni si trovano in una situazione paragonabile a quella delle persone più giovani che esercitano le medesime professioni. Tuttavia, i primi, a causa della loro età, sono costretti a cessare l'esercizio delle loro funzioni, per cui sono assoggettati ad un trattamento meno favorevole di quello riservato alle persone che restano in attività. La Corte rileva dunque che tale situazione costituisce una disparità di trattamento direttamente fondata sull'età.

La Corte ricorda tuttavia che finalità legittime rientranti nella politica sociale, come quelle connesse alla politica del lavoro, del mercato del lavoro o della formazione professionale possono giustificare una deroga al principio del divieto di discriminazioni fondate sull'età. A tal proposito, la Corte constata che le finalità invocate dall'Ungheria, ovvero la necessità di uniformare i limiti di età pensionabile delle professioni del pubblico impiego e l'introduzione di una ripartizione più equilibrata delle fasce di età che agevoli l'accesso dei giovani giuristi alle professioni di cui trattasi, rientrano effettivamente nella politica sociale.

Tuttavia, per quanto riguarda la finalità di uniformazione, la Corte sottolinea che le persone interessate dalla normativa contestata prima del 1º gennaio 2012 potevano restare in servizio sino
all'età di 70 anni, circostanza che ha fatto sorgere in capo alle medesime la
fondata aspettativa di restare in servizio sino a tale età. Orbene, la normativa contestata ha abbassato improvvisamente e considerevolmente il limite di età per la cessazione obbligatoria dell'attività, senza prevedere misure transitorie idonee a tutelare il legittimo affidamento di tali persone. Pertanto, le medesime sono obbligate a lasciare d'ufficio e definitivamente il mercato del lavoro senza aver avuto il tempo di adottare i provvedimenti, segnatamente di natura economica e finanziaria, che una tale situazione richiede. La Corte osserva a tal proposito che, da una parte, la pensione di vecchiaia di dette persone è inferiore almeno del 30% rispetto alla loro retribuzione e che, dall'altra, la cessazione dell'attività non tiene conto dei periodi contributivi e non garantisce dunque il diritto ad una pensione a tasso pieno.

La Corte rileva poi l'esistenza di una contraddizione tra l'abbassamento immediato di otto anni dell'età pensionabile per tali professioni, senza prevedere uno scaglionamento graduale di tale modifica, e l'innalzamento di tre anni dell'età pensionabile per il regime pensionistico generale (vale a dire il passaggio da 62 ai 65 anni) che deve essere effettuato a partire dal 2014 su un periodo di otto anni. Detta contraddizione suggerisce che gli interessi di coloro cui si applica l’abbassamento del limite di età non sono stati presi in considerazione allo stesso modo di quelli degli altri dipendenti del pubblico impiego per i quali il limite di età è stato innalzato.

Ciò premesso, la Corte conclude che
l'abbassamento radicale di otto anni dell'età pensionabile per quanto riguarda le professioni di cui trattasi non è una misura necessaria per raggiungere la finalità di uniformare l'età pensionabile delle professioni del servizio pubblico.

Infine, la Corte esamina la finalità dedotta dall'Ungheria di instaurare una ripartizione più equilibrata delle fasce di età. A tal proposito, pur riconoscendo che la normativa nazionale può agevolare nel breve termine l'accesso dei giovani giuristi alle professioni interessate, la Corte sottolinea tuttavia che gli effetti immediati attesi, apparentemente positivi, possono rimettere in discussione la possibilità di pervenire ad una «ripartizione delle fasce d'età» realmente equilibrata nel medio e lungo termine. Infatti, se è vero che nel corso del 2012 il rinnovo del personale delle professioni di cui trattasi subirà un'accelerazione molto significativa, poiché otto classi d'età vengono sostituite da una sola (quella del 2012), tale ritmo di rotazione subirà tuttavia un rallentamento altrettanto radicale nel 2013, quando solo una classe di età dovrà essere sostituita. Per di più, tale ritmo di rotazione sarà sempre più lento man mano che il limite d'età per la cessazione obbligatoria dell'attività si innalzerà progressivamente da 62 a 65 anni, comportando persino un peggioramento delle possibilità di accesso dei giovani giuristi alle professioni giudiziarie. Ne consegue che
la normativa nazionale contestata non è appropriata rispetto alla finalità perseguita di instaurare una «ripartizione delle fasce d'età» più equilibrata.

La Corte constata quindi che la normativa ungherese che introduce una disparità di trattamento non idonea o non necessaria a raggiungere le finalità perseguite non rispetta il principio di proporzionalità. La Corte conclude che l'Ungheria è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza della direttiva
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1 Direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro (GU L 303, pag. 16).