domenica 27 marzo 2011

(C – 29/10) CONVENZIONE DI ROMA SULLA LEGGE APPLICABILE ALLE OBBLIGAZIONI CONTRATTUALI - CONTRATTO DI LAVORO - SCELTA DELLE PARTI - DISPOSIZIONI IMPERATIVE DELLA LEGGE APPLICABILE IN MANCANZA DI SCELTA -

(C – 29/10) CONVENZIONE DI ROMA SULLA LEGGE APPLICABILE ALLE OBBLIGAZIONI CONTRATTUALI - CONTRATTO DI LAVORO - SCELTA DELLE PARTI - DISPOSIZIONI IMPERATIVE DELLA LEGGE APPLICABILE IN MANCANZA DI SCELTA -
DETERMINAZIONE DI TALE LEGGE - NOZIONE DI PAESE IN CUI IL LAVORATORE "COMPIE ABITUALMENTE IL SUO LAVORO"
La Corte di Giustizia (Grande Sezione) ha dichiarato che l’art. 6, n. 2, lett. a), della Convenzione sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali, aperta alla firma a Roma il 19 giugno 1980, deve essere interpretato nel senso che, nell’ipotesi in cui il lavoratore svolga le sue attività in più di uno Stato contraente, il paese in cui il lavoratore, in esecuzione del contratto, compie abitualmente il suo lavoro, ai sensi di tale disposizione, è quello in cui, o a partire dal quale, tenuto conto di tutti gli elementi che caratterizzano tale attività, il lavoratore adempie la parte sostanziale delle sue obbligazioni nei confronti del suo datore di lavoro. In considerazione della natura del lavoro oggetto della causa principale (concernente il settore dei trasporti internazionali), il giudice del rinvio è stato invitato a tener conto di tutti gli elementi che caratterizzano l’attività del lavoratore, dovendo in particolare stabilire in quale Stato si trovi il luogo a partire dal quale il lavoratore effettua le sue missioni di trasporto, riceve le istruzioni sulle sue missioni ed organizza il suo lavoro, nonché il luogo in cui si trovano gli strumenti lavorativi; egli deve, altresì, verificare quali sono i luoghi in cui il trasporto è principalmente effettuato, i luoghi di scarico della merce, nonché il luogo in cui il lavoratore ritorna dopo le sue missioni.

Testo Completo: Sentenza della Corte di giustizia delle Comunità europee del 15 marzo 2011

Nel procedimento C‑29/10,

avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi del Primo protocollo 19 dicembre 1988 relativo all’interpretazione da parte della Corte di giustizia delle Comunità europee della Convenzione sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali, dalla Cour d’appel de Luxembourg (Lussemburgo) con decisione 13 gennaio 2010, pervenuta in cancelleria il 18 gennaio 2010, nella causa

Heiko Koelzsch

contro

État du Grand-Duché de Luxembourg,

LA CORTE (Grande Sezione),

composta dal sig. V. Skouris, presidente, dai sigg. A. Tizzano, J.N. Cunha Rodrigues, K. Lenaerts e J.‑C. Bonichot, presidenti di sezione, dai sigg. A. Borg Barthet, M. Ilešič, J. Malenovský, U. Lõhmus, dalle sig.re P. Lindh e C. Toader (relatore), giudici,

ha pronunciato la seguente

Sentenza

1 La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione dell’art. 6, n. 2, lett. a), della Convenzione sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali, aperta alla firma a Roma il 19 giugno 1980 (GU 1980, L 266, pag. 1; in prosieguo: la «Convenzione di Roma»), il quale riguarda i contratti individuali di lavoro.

2 Tale domanda è stata presentata nell’ambito di un’azione di responsabilità promossa dal sig. Koelzsch contro il Granducato di Lussemburgo e fondata su una presunta violazione della predetta disposizione della Convenzione di Roma da parte dei giudici di tale Stato. Tali giudici erano stati chiamati a statuire in merito ad un’azione di risarcimento danni intentata dal ricorrente nella causa principale contro l’impresa di trasporti internazionali Ove Ostergaard Luxembourg SA, già Gasa Spedition Luxembourg (in prosieguo: la «Gasa»), con sede a Lussemburgo, con la quale aveva concluso un contratto di lavoro.

Contesto normativo

Le norme sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali e sulla competenza giudiziaria in materia civile e commerciale

La Convenzione di Roma

3 L’art. 3, n. 1, della Convenzione di Roma sancisce:

«Il contratto è regolato dalla legge scelta dalle parti. La scelta dev’essere espressa, o risultare in modo ragionevolmente certo dalle disposizioni del contratto o dalle circostanze. Le parti possono designare la legge applicabile a tutto il contratto, ovvero a una parte soltanto di esso».

4 L’art. 6 della Convenzione di Roma, intitolato «Contratto individuale di lavoro», prevede quanto segue:

«1. In deroga all’articolo 3, nei contratti di lavoro, la scelta della legge applicabile ad opera delle parti non vale a privare il lavoratore della protezione assicuratagli dalle norme imperative della legge che regolerebbe il contratto, in mancanza di scelta, a norma del paragrafo 2.

2. In deroga all’articolo 4 ed in mancanza di scelta a norma dell’articolo 3, il contratto di lavoro è regolato:

a) dalla legge del paese in cui il lavoratore, in esecuzione del contratto, compie abitualmente il suo lavoro, anche se è inviato temporaneamente in un altro paese, oppure

b) dalla legge del paese dove si trova la sede che ha proceduto ad assumere il lavoratore, qualora questi non compia abitualmente il suo lavoro in uno stesso paese,

a meno che non risulti dall’insieme delle circostanze che il contratto di lavoro presenta un collegamento più stretto con un altro paese. In questo caso si applica la legge di quest’altro paese».

5 Il Primo protocollo relativo all’interpretazione da parte della Corte di giustizia delle Comunità europee della Convenzione sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali, aperta alla firma a Roma il 19 giugno 1980 (GU 1998, C 27, pag. 47; in prosieguo: il «Primo protocollo relativo all’interpretazione della Convenzione di Roma»), al suo art. 2, stabilisce:

«Le seguenti giurisdizioni hanno il potere di domandare alla Corte di giustizia di pronunciarsi in via pregiudiziale su una questione sollevata in una causa pendente dinanzi ad una di esse e relativa all’interpretazione delle disposizioni contenute negli strumenti di cui all’articolo 1, quando tale giurisdizione ritiene che una decisione su questo punto sia necessaria per pronunciare la sentenza:

(…)

b) le giurisdizioni degli Stati contraenti quando si pronunciano in appello».

Il regolamento (CE) n. 593/2008

6 Il regolamento (CE) del Parlamento europeo e del Consiglio 17 giugno 2008, n. 593, sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali (Roma I) (GU L 177, pag. 6), ha sostituito la Convenzione di Roma. Tale regolamento si applica ai contratti conclusi dopo il 17 dicembre 2009.

7 L’art. 8 del regolamento n. 593/2008, intitolato «Contratti individuali di lavoro», così recita:

«1. Un contratto individuale di lavoro è disciplinato dalla legge scelta dalle parti conformemente all’articolo 3. Tuttavia, tale scelta non vale a privare il lavoratore della protezione assicuratagli dalle disposizioni alle quali non è permesso derogare convenzionalmente in virtù della legge che, in mancanza di scelta, sarebbe stata applicabile a norma dei paragrafi 2, 3 e 4 del presente articolo.

2. Nella misura in cui la legge applicabile al contratto individuale di lavoro non sia stata scelta dalle parti, il contratto è disciplinato dalla legge del paese nel quale o, in mancanza, a partire dal quale il lavoratore, in esecuzione del contratto, svolge abitualmente il suo lavoro. Il paese in cui il lavoro è abitualmente svolto non è ritenuto cambiato quando il lavoratore svolge il suo lavoro in un altro paese in modo temporaneo.

3. Qualora la legge applicabile non possa essere determinata a norma del paragrafo 2, il contratto è disciplinato dalla legge del paese nel quale si trova la sede che ha proceduto ad assumere il lavoratore.

4. Se dall’insieme delle circostanze risulta che il contratto di lavoro presenta un collegamento più stretto con un paese diverso da quello indicato ai paragrafi 2 o 3, si applica la legge di tale diverso paese».

La convenzioni di Bruxelles

8 La Convenzione di Bruxelles 27 settembre 1968, concernente la competenza giurisdizionale e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale (GU 1972, L 299, pag. 32), come modificata dalla Convenzione 29 novembre 1996, relativa all’adesione della Repubblica d’Austria, della Repubblica di Finlandia e del Regno di Svezia (GU 1997, C 15, pag. 1; in prosieguo: la «Convenzione di Bruxelles»), al suo art. 5, dispone quanto segue:

«Il convenuto domiciliato nel territorio di uno Stato contraente può essere citato in un altro Stato contraente:

1) in materia contrattuale, davanti al giudice del luogo in cui l’obbligazione dedotta in giudizio è stata o deve essere eseguita; in materia di contratto individuale di lavoro, il luogo è quello in cui il lavoratore svolge abitualmente la propria attività; qualora il lavoratore non svolga abitualmente la propria attività in un solo paese, il datore di lavoro può essere citato dinanzi al giudice del luogo in cui è situato o era situato lo stabilimento presso il quale è stato assunto.





(...)».





Il regolamento (CE) n. 44/2001

9 Il regolamento (CE) del Consiglio 22 dicembre 2000, n. 44/2001, concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale (GU 2001, L 12, pag. 1), ha sostituito la Convenzione di Bruxelles.

10 L’art. 19 del regolamento n. 44/2001 così prevede:

«Il datore di lavoro domiciliato nel territorio di uno Stato membro può essere convenuto:

1) davanti ai giudici dello Stato membro in cui è domiciliato o

2) in un altro Stato membro:

a) davanti al giudice del luogo in cui il lavoratore svolge abitualmente la propria attività o a quello dell’ultimo luogo in cui la svolgeva abitualmente, o

b) qualora il lavoratore non svolga o non abbia svolto abitualmente la propria attività in un solo paese, davanti al giudice del luogo in cui è o era situata la sede d’attività presso la quale è stato assunto».

Le normative nazionali

11 La legge lussemburghese 18 maggio 1979, recante riforma dei consigli aziendali (Mémorial A 1979, n. 45, pag. 948), al suo art. 34, n. 1, così dispone:

«Per la durata del loro mandato, i membri titolari e supplenti dei vari consigli aziendali non possono essere licenziati; il licenziamento notificato dal datore di lavoro a un membro del consiglio aziendale si considera nullo».

12 La legge tedesca sulla tutela contro il licenziamento (Kündigungsschutzgesetz), al suo art. 15, n. 1, prevede quanto segue:

«1. Il licenziamento di un membro di un consiglio aziendale (...) è illegittimo, salvo che talune circostanze consentano al datore di lavoro di procedere al licenziamento per gravi motivi senza osservare un termine di preavviso e che l’autorizzazione richiesta ai sensi dell’art. 103 della legge sull’organizzazione delle imprese [Betriebsverfassungsgesetz] sia stata fornita o sostituita da una decisione giudiziaria. Dopo la scadenza del mandato, il licenziamento di un membro di un consiglio aziendale (...) è illegittimo (...), salvo che talune circostanze consentano al datore di lavoro di procedere al licenziamento per gravi motivi senza osservare un termine di preavviso; ciò non si applica qualora la cessazione dalla qualità di membro sia basata su una decisione giudiziaria.

Dopo la fine del mandato, il licenziamento è vietato per il periodo di un anno».

Causa principale e questione pregiudiziale

13 Con un contratto di lavoro firmato a Lussemburgo il 16 ottobre 1998, il sig. Koelzsch, conducente di automezzi pesanti, residente a Osnabrück (Germania), è stato assunto come conducente internazionale dalla Gasa. Tale contratto contiene una clausola che rinvia alla legge lussemburghese 24 maggio 1989, sul contratto di lavoro (Mémorial A 1989, n. 35, pag. 612), nonché una clausola attributiva della competenza esclusiva ai giudici del suddetto Stato.

14 La Gasa è una filiale della società di diritto danese Gasa Odense Blomster amba, il cui oggetto consiste nel trasporto di fiori e altre piante da Odense (Danimarca) verso destinazioni situate in prevalenza in Germania, ma anche in altri paesi europei, per mezzo di autocarri stazionanti in Germania, segnatamente a Kassel, a Neukirchen/Vluyn e a Osnabrück. In quest’ultimo Stato membro, la Gasa non dispone né di una sede sociale né di uffici. Gli autocarri sono immatricolati in Lussemburgo e i conducenti beneficiano della previdenza sociale lussemburghese.

15 In seguito all’annuncio della ristrutturazione della Gasa e della riduzione dell’attività dei mezzi di trasporto in partenza dalla Germania, in data 13 gennaio 2001, i dipendenti di tale impresa hanno creato in predetto Stato un consiglio aziendale («Betriebsrat»), di cui il sig. Koelzsch è stato eletto membro supplente il 5 marzo 2001.

16 Con lettera 13 marzo 2001, il direttore della Gasa ha risolto il contratto di lavoro del sig. Koelzsch con effetto dal 15 maggio 2001.

L’azione di annullamento avverso il licenziamento e il ricorso per risarcimento danni contro la Gasa

17 Il ricorrente ha anzitutto impugnato la decisione di licenziamento in Germania, dinanzi all’Arbeitsgericht Osnabrück, il quale, con sentenza 4 luglio 2001, si è dichiarato incompetente ratione loci. Il sig. Koelzsch ha quindi interposto appello dinanzi al Landesarbeitsgericht Osnabrück, ma l’appello è stato respinto.

18 Con ricorso 24 luglio 2002, il sig. Koelzsch ha poi citato la Ove Ostergaard Luxembourg SA, subentrata nei diritti della Gasa, dinanzi al Tribunal du travail de Luxembourg, al fine di ottenere la condanna di quest’ultima tanto al risarcimento dei danni per licenziamento illegittimo, quanto al pagamento di un’indennità sostitutiva del preavviso e degli arretrati stipendiali. Egli ha sostenuto che, nonostante la scelta del diritto lussemburghese quale lex contractus, ai sensi dell’art. 6, n. 1, della Convenzione di Roma, sarebbero applicabili alla controversia le disposizioni imperative di diritto tedesco che tutelano i membri del consiglio aziendale («Betriebsrat»), giacché il diritto tedesco sarebbe la legge del contratto in mancanza di scelta ad opera delle parti. Pertanto, il suo licenziamento sarebbe illegittimo, poiché l’art. 15 della legge tedesca sulla tutela contro il licenziamento vieterebbe il licenziamento dei membri di detto «Betriebsrat» e, ai sensi della giurisprudenza del Bundesarbeitsgericht (Corte federale del lavoro tedesca), tale divieto si estenderebbe ai membri supplenti.

19 Nella sua sentenza 4 marzo 2004, il Tribunal du travail de Luxembourg ha ritenuto che la controversia fosse soggetta unicamente al diritto lussemburghese e, di conseguenza, ha applicato la legge 18 maggio 1979, recante riforma dei consigli aziendali.

20 Tale sentenza è stata confermata nel merito dalla sentenza della Cour d’appel de Luxembourg 26 maggio 2005, ove quest’ultima aveva peraltro considerato come nuova, e dunque irricevibile, la domanda del sig. Koelzsch di applicare la summenzionata legge tedesca all’insieme delle sue pretese. La Cour de cassation de Luxembourg ha altresì respinto il ricorso avverso tale decisione con sentenza 15 giugno 2006.

Il ricorso di responsabilità contro lo Stato per violazione della Convenzione di Roma da parte degli organi giudiziari

21 Poiché questo primo procedimento dinanzi ai giudici lussemburghesi era chiuso definitivamente, in data 1° marzo 2007 il sig. Koelzsch ha presentato un ricorso di risarcimento contro il Granducato di Lussemburgo in base all’art. 1, primo comma, della legge 1° settembre 1988, sulla responsabilità civile dello Stato e degli enti pubblici (Mémorial A 1988, n. 51, pag. 1000), invocando il cattivo funzionamento degli organi giudiziari di quest’ultimo.

22 Il sig. Koelzsch sosteneva, in particolare, che le sopraindicate decisioni giurisdizionali avevano violato l’art. 6, nn. 1 e 2, della Convenzione di Roma, dichiarando inapplicabili al suo contratto di lavoro le disposizioni imperative della legge tedesca sulla tutela contro il licenziamento e respingendo la sua richiesta di adire la Corte di giustizia con una questione pregiudiziale volta a precisare, alla luce degli elementi del caso di specie, il criterio del luogo di esecuzione abituale del lavoro.

23 Con sentenza 9 novembre 2007, il Tribunal d’arrondissement de Luxembourg (Lussemburgo) ha dichiarato il ricorso ricevibile ma infondato. Per quanto attiene segnatamente alla questione della determinazione della legge applicabile, tale Tribunale ha rilevato che i giudici investiti della controversia tra il sig. Koelzsch e il suo datore di lavoro avevano giustamente considerato che le parti del contratto di lavoro avessero designato la legge lussemburghese come diritto applicabile, sicché non doveva essere preso in considerazione l’art. 6, n. 2, della Convenzione di Roma. Inoltre, esso ha evidenziato che gli istituti di rappresentanza del personale sono disciplinati dalle disposizioni imperative del paese in cui ha sede il datore di lavoro.

24 Il 17 giugno 2008, il sig. Koelzsch ha impugnato tale sentenza dinanzi al giudice del rinvio.

25 La Cour d’appel de Luxembourg ritiene che la critica dell’appellante in merito all’interpretazione dell’art. 6, n. 1, della Convenzione di Roma da parte dei giudici lussemburghesi non risulti priva di qualsiasi fondamento, in quanto questi ultimi non avrebbero determinato la legge applicabile, in mancanza di scelta ad opera delle parti, in base alla disposizione in parola.

26 Essa rileva che, qualora il diritto lussemburghese vada considerato legge applicabile al contratto in mancanza di scelta ad opera delle parti, non è necessario procedere alla comparazione tra tale legge e le disposizioni della legge tedesca invocata dal ricorrente, al fine di individuare la più favorevole al lavoratore, ai sensi dell’art. 6, n. 1, della Convenzione di Roma. Per contro, qualora quest’ultima legge sia da considerare la legge applicabile in mancanza di scelta ad opera delle parti, il carattere imperativo delle norme stabilite dal diritto lussemburghese in materia di licenziamento non dovrebbe impedire l’applicazione del diritto tedesco sulla tutela speciale contro il licenziamento dei membri del consiglio aziendale.

27 A tal riguardo, secondo il giudice del rinvio, i criteri di collegamento previsti dall’art. 6, n. 2, della Convenzione di Roma, segnatamente quello del paese di esecuzione abituale del lavoro, non consentono, contrariamente alla soluzione adottata dal Tribunal d’arrondissement de Luxembourg nella sua sentenza, di escludere subito la legge tedesca come lex contractus.

28 Il giudice del rinvio ritiene che esigenze di coerenza inducano ad interpretare la nozione di «legge del paese in cui il lavoratore compie abitualmente il suo lavoro», contenuta nell’art. 6, n. 2, lett. a), della Convenzione di Roma, alla luce di quella enunciata all’art. 5, n. 1, della Convenzione di Bruxelles e tenendo conto della formulazione usata all’art. 19 del regolamento n. 44/2001, nonché all’art. 8 del regolamento n. 593/2008, che fanno riferimento non soltanto al paese di esecuzione del lavoro, ma anche a quello a partire dal quale il lavoratore svolge le sue attività.

29 Alla luce di tali considerazioni, la Cour d’appel de Luxembourg ha deciso di sospendere il giudizio e di sottoporre alla Corte la seguente questione pregiudiziale:

«Se la norma di diritto internazionale privato definita (...) all’art. 6, n. 2, lett. a), [della Convenzione di Roma], che enuncia che il contratto di lavoro è disciplinato dalla legge del paese in cui il lavoratore, in esecuzione del contratto, svolge abitualmente il suo lavoro, debba essere interpretata nel senso che, nell’ipotesi in cui il lavoratore esegua la prestazione lavorativa in diversi paesi, ma ritorni sistematicamente in uno di essi, questo paese deve essere considerato come quello in cui il lavoratore svolge abitualmente il suo lavoro».

Sulla questione pregiudiziale

30 Poiché la questione è stata posta da un giudice d’appello, la Corte è competente a pronunciarsi sulla domanda di pronuncia pregiudiziale, in forza del Primo protocollo relativo all’interpretazione della Convenzione di Roma, entrato in vigore il 1° agosto 2004.

31 Per risolvere la questione deferita, occorre interpretare la norma di cui all’art. 6, n. 2, lett. a), della Convenzione di Roma, e segnatamente il criterio del paese in cui il lavoratore «compie abitualmente il suo lavoro».

32 A tal riguardo va rilevato che, come sottolineato giustamente dalla Commissione europea, tale criterio deve essere interpretato in modo autonomo, nel senso che il contenuto e la portata di tale norma non possono essere determinati in base al diritto del giudice adito, ma devono essere definiti secondo criteri uniformi ed autonomi per assicurare la piena efficacia della Convenzione di Roma conformemente agli obiettivi che essa persegue (v., per analogia, sentenza 13 luglio 1993, causa C‑125/92, Mulox IBC, Racc. pag. I‑4075, punti 10 e 16).

33 Inoltre, una siffatta interpretazione non deve prescindere da quella relativa ai criteri previsti dall’art. 5, punto 1, della Convenzione di Bruxelles, quando fissano norme per la determinazione della competenza giurisdizionale per le stesse materie e stabiliscono nozioni analoghe. Infatti, dal preambolo della Convenzione di Roma risulta che essa è stata conclusa per continuare l’opera di unificazione giuridica nel settore del diritto privato internazionale, intrapresa con l’adozione della Convenzione di Bruxelles (v. sentenza 6 ottobre 2009, causa C‑133/08, ICF, Racc. pag. I‑9687, punto 22).

34 Per quanto riguarda il contenuto dell’art. 6 della Convenzione di Roma, giova ricordare che esso fissa norme di diritto internazionale privato speciali relative ai contratti individuali di lavoro. Tali norme derogano a quelle di carattere generale di cui agli artt. 3 e 4 della Convenzione in esame, riguardanti rispettivamente la libertà di scelta della legge applicabile e i criteri di determinazione di quest’ultima in mancanza di una scelta siffatta.

35 L’art. 6, n. 1, della citata Convenzione limita la libertà di scelta della legge applicabile. Esso prevede che le parti contrattuali non possano, convenzionalmente, escludere l’applicazione delle norme giuridiche imperative che disciplinerebbero il contratto in mancanza di una siffatta scelta.

36 L’art. 6, n. 2, della medesima Convenzione stabilisce criteri di collegamento specifici che sono quello del paese in cui il lavoratore «compie abitualmente il suo lavoro» [lett. a)], ovvero, in mancanza di un tale luogo, quello della sede «che ha proceduto ad assumere il lavoratore» [lett. b)]. Inoltre, questo numero prevede che i due suddetti criteri di collegamento non siano applicabili qualora dall’insieme delle circostanze emerga che il contratto di lavoro presenta un collegamento più stretto con un altro paese, nel qual caso è applicabile la legge di quest’altro paese.

37 Con la sua decisione di rinvio, la Cour d’appel de Luxembourg intende sapere, sostanzialmente, quale dei primi due criteri sia applicabile al contratto di lavoro di cui trattasi nella causa principale.

38 Secondo il Granducato di Lussemburgo, dal tenore letterale dell’art. 6 della Convenzione di Roma emerge che l’ipotesi contemplata nella questione pregiudiziale, riguardante il lavoro nel settore dei trasporti, è quella cui si riferisce il criterio di cui all’art. 6, n. 2, lett. b). Ammettere l’applicazione a un siffatto contratto della norma di collegamento di cui all’art. 6, n. 2, lett. a), equivarrebbe a svuotare di significato la disposizione di cui al n. 2, lett. b), che concerne proprio il caso in cui il lavoratore non compie abitualmente il suo lavoro in un solo paese.

39 Invece, a giudizio del ricorrente nella causa principale, del governo ellenico e della Commissione, dalla giurisprudenza della Corte relativa all’art. 5, punto 1, della Convenzione di Bruxelles si evince che l’interpretazione sistematica del criterio del luogo in cui il lavoratore «compie abitualmente il suo lavoro» porta a consentire l’applicazione di tale norma alle ipotesi in cui la prestazione lavorativa venga effettuata in più Stati membri. In particolare, essi deducono che, ai fini dell’individuazione concreta di tale luogo, la Corte ha fatto riferimento al luogo a partire dal quale il lavoratore adempie principalmente le sue obbligazioni nei confronti del suo datore di lavoro (sentenza Mulox IBC, cit., punti 21‑23), oppure al luogo in cui egli ha stabilito il centro effettivo delle sue attività professionali (sentenza 9 gennaio 1997, causa C‑383/95, Rutten, Racc. pag. I‑57, punto 23), o, in mancanza di un ufficio, al luogo in cui il lavoratore compie la maggior parte del suo lavoro (sentenza 27 febbraio 2002, causa C‑37/00,Weber, Racc. pag. I‑2013, punto 42).

40 A tale proposito, dalla relazione sulla Convenzione relativa alla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali, dei proff. Giuliano e Lagarde (GU 1980, C 282, pag. 1), emerge che l’art. 6 di quest’ultima è stato concepito per «applicare una normativa più adatta a materie nelle quali gli interessi di una parte contraente non si pongono sullo stesso piano degli interessi dell’altra, e di assicurare [quindi] una migliore tutela a quella parte che, sotto l’aspetto socio-economico, dev’essere considerata come la più debole nel rapporto contrattuale».

41 La Corte si è parimenti ispirata a siffatti principi nell’interpretazione delle norme di competenza relative a questi contratti, fissate nella Convenzione di Bruxelles. Infatti, essa ha statuito che, nell’ipotesi in cui, come nella causa principale, il lavoratore svolga le proprie attività professionali in più di uno Stato contraente, occorre tener in debito conto la necessità di garantire un’adeguata tutela al lavoratore in quanto parte contraente più debole (v., in tal senso, sentenze Rutten, cit., punto 22, e 10 aprile 2003, causa C‑437/00, Pugliese, Racc. pag. I‑3573, punto 18).

42 Ne consegue che, poiché l’obiettivo dell’art. 6 della Convenzione di Roma è di assicurare una tutela adeguata al lavoratore, tale disposizione deve essere intesa nel senso che essa garantisce l’applicabilità della legge dello Stato in cui egli svolge le sue attività professionali piuttosto che di quella dello Stato della sede del datore di lavoro. Infatti, in questo primo Stato il lavoratore esercita la sua funzione economica e sociale e, come sottolineato dall’avvocato generale al paragrafo 50 delle sue conclusioni, l’ambiente professionale e politico influisce sull’attività lavorativa. Di conseguenza, l’osservanza delle norme di tutela del lavoro previste dal diritto di tale paese deve essere, per quanto possibile, garantita.

43 Pertanto, tenuto conto dell’obiettivo perseguito dall’art. 6 della Convenzione di Roma, occorre constatare che il criterio del paese in cui il lavoratore «compie abitualmente il suo lavoro», sancito dal n. 2, lett. a), del medesimo, deve essere interpretato in senso ampio, mentre il criterio della sede che «ha proceduto ad assumere il lavoratore», di cui al n. 2, lett. b), dello stesso articolo, dovrebbe trovare applicazione qualora il giudice adito non sia in condizione di individuare il paese di esecuzione abituale del lavoro.

44 Da quanto precede discende che il criterio contenuto nell’art. 6, n. 2, lett. a), della Convenzione di Roma, può applicarsi anche in un’ipotesi, come quella in esame nella causa principale, in cui il lavoratore svolge le sue attività in più di uno Stato contraente, allorquando per il giudice adito è possibile individuare lo Stato che presenta un collegamento significativo con il lavoro.

45 Secondo la giurisprudenza della Corte, citata al punto 39 della presente sentenza, che rimane pertinente nell’analisi dell’art. 6, n. 2, della Convenzione di Roma, qualora le prestazioni lavorative siano eseguite in più di uno Stato membro, il criterio del paese dell’esecuzione abituale del lavoro deve formare oggetto di un’interpretazione ampia ed essere inteso nel senso che si riferisce al luogo in cui o a partire dal quale il lavoratore esercita effettivamente le proprie attività professionali e, in mancanza di un tale centro di affari, al luogo in cui il medesimo svolge la maggior parte delle sue attività.

46 Peraltro, tale interpretazione si concilia anche con la formulazione della nuova disposizione sulle norme di diritto internazionale privato relative ai contratti individuali di lavoro, introdotta dal regolamento n. 593/2008, non applicabile nella specie ratione temporis. Infatti, in forza dell’art. 8 di tale regolamento, in mancanza di una scelta operata dalle parti, il contratto individuale di lavoro è disciplinato dalla legge del paese nel quale o, in mancanza, a partire dal quale il lavoratore, in esecuzione del contratto, svolge abitualmente il suo lavoro. Tale legge rimane applicabile anche quando il lavoratore esegue temporaneamente le sue prestazioni in un altro Stato. Inoltre, come indicato dal ventitreesimo ‘considerando’ del regolamento in parola, l’interpretazione di tale disposizione deve ispirarsi ai principi del favor laboratoris, in quanto le parti più deboli del contratto devono essere protette «tramite regole di conflitto di leggi più favorevoli».

47 Da quanto precede emerge che il giudice del rinvio deve interpretare in senso ampio il criterio di collegamento sancito dall’art. 6, n. 2, lett. a), della Convenzione di Roma per stabilire se il ricorrente nella causa principale abbia compiuto abitualmente il suo lavoro in uno degli Stati contraenti e per individuare quale di essi.

48 A tal fine, in considerazione della natura del lavoro nel settore dei trasporti internazionali, come quello di cui trattasi nella causa principale, il giudice del rinvio, come suggerito dall’avvocato generale ai paragrafi 93‑96 delle sue conclusioni, deve tener conto di tutti gli elementi che caratterizzano l’attività del lavoratore.

49 In particolare, esso deve stabilire in quale Stato si trovi il luogo a partire dal quale il lavoratore effettua le sue missioni di trasporto, riceve le istruzioni sulle sue missioni e organizza il suo lavoro, nonché il luogo in cui si trovano gli strumenti lavorativi. Egli deve anche verificare quali sono i luoghi in cui il trasporto è principalmente effettuato, i luoghi di scarico della merce nonché il luogo in cui il lavoratore ritorna dopo le sue missioni.

50 Ciò premesso, occorre risolvere la questione posta dichiarando che l’art. 6, n. 2, lett. a), della Convenzione di Roma deve essere interpretato nel senso che, nell’ipotesi in cui il lavoratore svolga le sue attività in più di uno Stato contraente, il paese in cui il lavoratore, in esecuzione del contratto, compie abitualmente il suo lavoro, ai sensi di tale disposizione, è quello in cui o a partire dal quale, tenuto conto di tutti gli elementi che caratterizzano detta attività, il lavoratore adempie la parte sostanziale delle sue obbligazioni nei confronti del suo datore di lavoro.

Sulle spese

51 Nei confronti delle parti nella causa principale il presente procedimento costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione.

Per questi motivi, la Corte (Grande Sezione) dichiara:

L’art. 6, n. 2, lett. a), della Convenzione sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali, aperta alla firma a Roma il 19 giugno 1980, deve essere interpretato nel senso che, nell’ipotesi in cui il lavoratore svolga le sue attività in più di uno Stato contraente, il paese in cui il lavoratore, in esecuzione del contratto, compie abitualmente il suo lavoro, ai sensi di tale disposizione, è quello in cui o a partire dal quale, tenuto conto di tutti gli elementi che caratterizzano detta attività, il lavoratore adempie la parte sostanziale delle sue obbligazioni nei confronti del suo datore di lavoro.


Uno Stato membro non può subordinare l’apertura di grandi esercizi commerciali a considerazioni economiche quali l’incidenza sul commercio al dettaglio preesistente o il livello d’insediamento dell’impresa sul mercato

Uno Stato membro non può subordinare l’apertura di grandi esercizi commerciali a considerazioni economiche quali l’incidenza sul commercio al dettaglio preesistente o il livello d’insediamento dell’impresa sul mercato
Considerazioni di tale genere non sono idonee a giustificare una restrizione alla libertà di stabilimento
Considerando che la libertà di stabilimento osti alla normativa che fissa le condizioni d’insediamento dei grandi esercizi commerciali nel territorio della Comunità autonoma di Catalogna 1, la Commissione europea ha deciso di proporre il presente ricorso per inadempimento contro la Spagna.
La normativa spagnola instaura un regime di autorizzazione previa che si applica a qualsiasi apertura di un esercizio commerciale di grandi dimensioni nel territorio della Comunità autonoma di Catalogna. In forza di esso si limitano le zone d’insediamento disponibili per nuove strutture e le superfici di vendita. Inoltre, l’autorizzazione ai nuovi esercizi è concessa unicamente qualora sia stato verificato che non vi siano ripercussioni sui piccoli esercizi preesistenti.
Nella sua odierna sentenza la Corte dichiara che la normativa spagnola, considerata nel suo insieme, costituisce una restrizione alla libertà di stabilimento. Essa, infatti, ha l’effetto di ostacolare e di scoraggiare l’esercizio, da parte di operatori economici di altri Stati membri, delle loro attività nel territorio della Comunità autonoma di Catalogna, e pertanto di incidere sul loro stabilimento nel mercato spagnolo.
La Corte ricorda tuttavia che restrizioni alla libertà di stabilimento, come quella in discussione, possono essere giustificate da motivi imperativi di interesse generale, a condizione che siano atte a garantire la realizzazione dell’obiettivo perseguito e non vadano oltre quanto necessario al raggiungimento dello stesso. Fra tali motivi imperativi figurano, tra gli altri, la protezione dell’ambiente, la razionale gestione del territorio, nonché la tutela dei consumatori. Per contro, finalità di natura puramente economica non possono costituire un motivo imperativo di interesse generale. Ciò premesso, la Corte procede a verificare se talune delle disposizioni spagnole possano essere giustificate.
Le limitazioni attinenti all’ubicazione e alle dimensioni dei grandi esercizi commerciali
La Corte dichiara che la Spagna è venuta meno agli obblighi derivanti dal principio della libertà di stabilimento avendo adottato e mantenuto in vigore le disposizioni della disciplina catalana che: 1) vietano l’insediamento di grandi esercizi commerciali al di fuori degli agglomerati urbani di un numero limitato di comuni 2; 2) limitano l’insediamento di nuovi ipermercati alle province nelle quali l’offerta commerciale esistente non sia ritenuta eccessiva 3, e 3) impongono che tali nuovi ipermercati non assorbano oltre il 9% della spesa per beni di largo consumo o oltre il 7% della spesa per beni non di uso corrente.
Sebbene restrizioni concernenti la localizzazione e le dimensioni dei grandi esercizi commerciali appaiano mezzi idonei a raggiungere gli obiettivi di razionale gestione del territorio e di protezione dell’ambiente fatti valere dalla Spagna, la Corte constata ciò nondimeno che lo Stato non ha esposto elementi sufficienti per illustrare le ragioni per le quali le restrizioni sarebbero necessarie per raggiungere gli obiettivi perseguiti. Pertanto, tenuto conto dell’assenza di spiegazioni e della significativa incidenza delle limitazioni sulla possibilità di aprire grandi esercizi commerciali in Catalogna, la Corte stabilisce che le restrizioni all’ubicazione e alle dimensioni dei grandi esercizi commerciali non sono giustificate.
Le condizioni per ottenere l’autorizzazione all’apertura di grandi esercizi commerciali
A tale riguardo, la disciplina nazionale prevede l’obbligo per le autorità pubbliche di tenere conto dell’esistenza di strutture commerciali nella zona interessata, nonché degli effetti dell’insediamento di un nuovo esercizio commerciale sull’assetto commerciale di tale zona. La normativa catalana impone del pari alle autorità pubbliche di redigere, nel contesto della procedura di rilascio dell’autorizzazione, una relazione sul livello d’insediamento del richiedente l’autorizzazione sul suo mercato.
Imponendo i due requisiti, l’autorizzazione è subordinata al rispetto di soglie massime attinenti al livello d’insediamento e all’incidenza sugli esercizi commerciali al dettaglio preesistenti, al di là delle quali è impossibile aprire grandi esercizi commerciali. Considerazioni di questo genere, di natura puramente economica, non possono, a giudizio della Corte, costituire un motivo imperativo di interesse generale e, pertanto, giustificare una restrizione alla libertà di stabilimento. Di conseguenza, relativamente alle condizioni per ottenere l’autorizzazione necessaria per l’apertura di grandi esercizi commerciali, la Corte conclude che il principio della libertà di stabilimento non ammette le disposizioni nazionali e catalane che richiedono il rispetto di soglie massime attinenti al livello d’insediamento dell’impresa richiedente l’autorizzazione e all’incidenza del nuovo esercizio commerciale sugli esercizi al dettaglio preesistenti.
Infine, nell’iter della procedura per l’autorizzazione all’apertura di grandi esercizi commerciali, la normativa impone di consultare il Comitato per le strutture commerciali, incaricato di stilare una relazione che tenga conto in particolare della razionale gestione del territorio e della protezione dell’ambiente. Riguardo a tale questione, la Corte dichiara che il principio della libertà di stabilimento non ammette la previsione catalana che disciplina la composizione del Comitato per le strutture commerciali in modo tale da garantire la rappresentanza degli interessi del commercio al dettaglio preesistente, ma non prevede la rappresentanza delle associazioni attive nel settore della protezione dell’ambiente e dei gruppi d’interesse per la tutela dei consumatori.
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1 Alcune delle condizioni in questione sono stabilite da una legge nazionale, altre dalla normativa regionale catalana.
2 Infatti, i grandi esercizi commerciali possono essere stabiliti solo negli agglomerati urbani dei comuni capoluogo o la cui popolazione sia superiore a 25 000 abitanti o persone a questi assimilabili a causa dei flussi turistici.
3 Relativamente al 2009 l’offerta commerciale è stata ritenuta eccessiva in 37 delle 41 province della Comunità autonoma di Catalogna.
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IMPORTANTE: La Commissione o un altro Stato membro possono proporre un ricorso per inadempimento diretto contro uno Stato membro che è venuto meno ai propri obblighi derivanti dal diritto dell’Unione. Qualora la Corte di giustizia accerti l’inadempimento, lo Stato membro interessato deve conformarsi alla sentenza senza indugio.
La Commissione, qualora ritenga che lo Stato membro non si sia conformato alla sentenza, può proporre un altro ricorso chiedendo sanzioni pecuniarie. Tuttavia, in caso di mancata comunicazione delle misure di attuazione di una direttiva alla Commissione, su domanda di quest’ultima, la Corte di giustizia può infliggere sanzioni pecuniarie, al momento della prima sentenza.

Il regolamento che vieta alle tonniere di pescare il tonno rosso a partire dalla metà di giugno del 2008 è parzialmente invalido

Il regolamento che vieta alle tonniere di pescare il tonno rosso a partire dalla metà di giugno del 2008 è parzialmente invalido
Il regolamento viola il principio di non discriminazione, in quanto il divieto prende effetto a partire dal 23 giugno 2008 per le tonniere spagnole, mentre prende effetto a partire dal 16 giugno 2008 per le tonniere maltesi, greche, francesi, italiane e cipriote
Nell’Oceano Atlantico orientale e nel Mar Mediterraneo la pesca al tonno rosso mediante reti a circuizione è normalmente consentita tra il 1° gennaio e il 30 giugno. Nondimeno, in forza del regolamento di base in materia di politica comune della pesca 1, la Commissione può adottare provvedimenti d’urgenza per la conservazione degli stock ittici.
Così, il 12 giugno 2008 la Commissione ha adottato un regolamento 2 che vieta la pesca al tonno rosso nell’Oceano Atlantico orientale e nel Mar Mediterraneo alle tonniere con reti a circuizione battenti bandiera della Grecia, della Francia, dell’Italia, di Cipro e di Malta a partire dal 16 giugno 2008 ed alle tonniere battenti bandiera della Spagna a partire dal 23 giugno 2008. Del pari, il regolamento vieta agli operatori comunitari di accettare gli sbarchi, le messe in gabbia a fini di ingrasso o di allevamento nonché i trasbordi nelle acque o nei porti comunitari del tonno rosso catturato da tonniere con reti a circuizione in tali zone a partire dalle stesse date.
La AJD Tuna è una società maltese che possiede due vivai marini di allevamento e di ingrasso del tonno rosso. In seguito all’adozione di tale regolamento, il Direttur tal-Agrikoltura u s-Sajd (direzione per l’agricoltura e la pesca maltesi) le ha vietato di acquistare e importare tonno rosso a Malta. La AJD Tuna ha adito la Prim’Awla tal-Qorti Civili (tribunale civile di Malta) allo scopo di ottenere il risarcimento del danno che essa asserisce di aver subito a causa del divieto che considera abusivo, illegittimo e irragionevole. La AJD Tuna sostiene di non aver potuto acquistare il quantitativo di tonno rosso che aveva convenuto di acquistare da pescatori francesi e italiani prima dell’apertura della stagione di pesca. Ritenendo che la soluzione della controversia sia condizionata dalla validità del regolamento, il tribunale maltese interroga la Corte di giustizia al riguardo.
Nella sua sentenza odierna la Corte constata anzitutto che il regolamento di base non è invalido in quanto non prevede che siano raccolte, durante il procedimento di adozione delle misure di urgenza, le osservazioni degli operatori che potrebbero essere pregiudicati da tali misure. La Corte ricorda che il diritto spettante a chiunque di essere ascoltato prima dell’adozione di un provvedimento individuale che gli rechi pregiudizio si applica soltanto agli atti individuali e non ad un atto di portata generale come il regolamento di base.
La Corte dichiara poi che il regolamento non viola l’obbligo di motivazione, il principio di tutela del legittimo affidamento o il principio di proporzionalità.
Tuttavia, la Corte considera che il regolamento viola il principio di non discriminazione, in quanto i divieti che esso sancisce hanno effetto a partire dal 23 giugno 2008 per le tonniere spagnole, mentre tali divieti hanno effetto a partire dal 16 giugno 2008 per le tonniere maltesi, greche, francesi, italiane e cipriote. Al riguardo, la Corte considera che non è stato dimostrato che le tonniere spagnole fossero in una situazione obiettivamente diversa da quella delle altre tonniere considerate dal regolamento, situazione che avrebbe giustificato per esse il rinvio di una settimana dell’entrata in vigore delle misure di divieto di pesca allo scopo di proteggere meglio gli stock di tonno rosso nell’Oceano Atlantico orientale e nel Mar Mediterraneo.
In tale contesto la Corte osserva che il divieto di pesca al tonno rosso non era fondato sull’esaurimento della quota attribuita ad uno Stato membro ma sul rischio di esaurimento degli stock di tonno rosso e sull’impatto della pesca con reti a circuizione su tali stock. Orbene, non è stato dimostrato né sostenuto che le tonniere spagnole fossero diverse dalle altre tonniere quanto alla loro capacità di catturare tonno rosso e quanto al loro impatto sull’esaurimento degli stock di tale pesce.
La Corte conclude che il regolamento è invalido nei limiti in cui tratta diversamente le tonniere spagnole rispetto alle altre tonniere senza che tale differenza di trattamento sia obiettivamente giustificata, considerato l’obiettivo perseguito, costituito dalla protezione dello stock di tonno rosso.
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1 Regolamento (CE) del Consiglio 20 dicembre 2002, n. 2371, relativo alla conservazione e allo sfruttamento sostenibile delle risorse della pesca nell’ambito della politica comune della pesca (GU L 358, pag. 59).
2 Regolamento (CE) della Commissione 12 giugno 2008, n. 530, che istituisce misure di emergenza per quanto riguarda le tonniere con reti a circuizione dedite alla pesca del tonno rosso nell’Oceano Atlantico, ad est di 45° di longitudine O, e nel Mar Mediterraneo (GU L 155, pag. 9).
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IMPORTANTE: Il rinvio pregiudiziale consente ai giudici degli Stati membri, nell'ambito di una controversia della quale sono investiti, di interpellare la Corte in merito all’interpretazione del diritto dell’Unione o alla validità di un atto dell’Unione. La Corte non risolve la controversia nazionale. Spetta al giudice nazionale risolvere la causa conformemente alla decisione della Corte. Tale decisione vincola egualmente gli altri giudici nazionali ai quali venga sottoposto un problema simile. 

Il Tribunale annulla le ammende inflitte a talune imprese per la loro partecipazione all’intesa nel settore dei raccordi in rame

Il Tribunale annulla le ammende inflitte a talune imprese per la loro partecipazione all’intesa nel settore dei raccordi in rame
Con decisione 20 settembre 20061, la Commissione ha inflitto ammende per un importo complessivo di EUR 314,76 milioni, a 30 società per aver partecipato, nel corso di vari periodi compresi tra il 31 dicembre 1988 ed il 1° aprile 2004, ad un’intesa nel settore dei raccordi in rame. L’infrazione consisteva nella fissazione di prezzi, nella conclusione di accordi su sconti e riduzioni, in meccanismi di applicazione degli aumenti dei prezzi, nella spartizione dei mercati nazionali e dei clienti, nello scambio di altre informazioni commerciali nonché nella partecipazione a riunioni regolari.
La Commissione ha inflitto le seguenti ammende:
- Viega GmbH & Co. KG: EUR 54,29 milioni,
- Legris Industries SA: EUR 46,80 milioni (di cui EUR 18,56 milioni da pagare in solido con la Comap SA),
- IMI: EUR 48,30 milioni, di cui è responsabile in solido con:
- Yorkshire Fittings per EUR 9,64 milioni
- VSH Italia per EUR 0,42 milioni
- Aquatis per EUR 48,30 milioni
- Simplex per EUR 48,30 milioni
- FRA.BO SpA: EUR 1,58 milioni,
- Advanced Fluid Connections: EUR 18,08 milioni (di cui EUR 11,26 milioni in solido con IBP e EUR 5,63 milioni con IBP France),
- Kaimer: EUR 7,97 milioni (di cui EUR 7,95 milioni in solido con Sanha Kaimer e EUR 7,15 milioni con Sanha Italia),
- Tomkins plc: EUR 5,25 milioni in solido con Pegler,
- Aquatis e Simplex: EUR 2,04 milioni,
- Aalberts: EUR 100,80 milioni (di cui EUR 55,15 milioni in solido con Aquatis e EUR 55,15 milioni con Simplex).
Alcune di queste imprese hanno chiesto al Tribunale l’annullamento della decisione della Commissione o la riduzione delle loro ammende.
Il Tribunale respinge gli argomenti addotti da Viega, Legris Industries, Comap, IMI, FRA.BO, IBP e mantiene fermo l’importo delle loro ammende. Nondimeno, il Tribunale reputa che, nella causa IBP, la Commissione abbia erroneamente ritenuto che sussistesse una circostanza aggravante consistente nella comunicazione di informazioni ingannevoli. Tuttavia, tale constatazione non si traduce in una riduzione effettiva dell’importo dell’ammenda. Infatti, tale riduzione viene effettuata prima dell’applicazione del limite del 10% del fatturato globale che la Commissione è tenuta a prendere in considerazione per determinare l’importo massimo della sanzione pecuniaria.
Per quanto riguarda le altre imprese, il Tribunale decide di annullare le ammende irrogate o di ridurne l’importo.
Infatti, per quanto riguarda, da un lato, Kaimer, Sanha Kaimer e Sanha Italia e, dall’altro, Tomkins e Pegler - sua controllata all’epoca dei fatti - il Tribunale considera che la durata della loro partecipazione all’infrazione è inferiore a quella accertata dalla Commissione. Di conseguenza, riduce l’importo delle loro ammende. Pertanto, l’ammenda inflitta a Kaimer è fissata a EUR 7,15 milioni (in solido con Sanha Kaimer per l’intero importo e con Sanha Italia per EUR 6,33 milioni).
L’importo dell’ammenda irrogata a Tomkins è stato ridotto in quanto essa è stata ritenuta responsabile della partecipazione all’intesa di Pegler, sua controllata, soltanto in qualità di società controllante. Il Tribunale considera che la responsabilità di una società controllante non possa superare quella della sua controllata. Conseguentemente, in mancanza di un comportamento illecito della controllata, non può esservi né un’imputazione alla società controllante di suddetto comportamento, né una condanna in solido della società controllante con la sua controllata al pagamento dell’ammenda.
Peraltro, per quanto attiene specificamente a Pegler, il Tribunale decide altresì che, in sede di calcolo dell’ammenda, la Commissione non poteva applicare un coefficiente moltiplicatore a fini deterrenti. Di conseguenza, l’ammenda di Tomkins è fissata in EUR 4,25 milioni (di cui EUR 3,40 milioni in solido con Pegler).
Per quanto concerne Aalberts, Aquatis e Simplex, il Tribunale decide che la Commissione è incorsa in un errore considerando che tali imprese avessero partecipato all’intesa nel periodo compreso tra il 25 giugno 2003 e il 1° aprile 2004. Pertanto, il Tribunale annulla la decisione della Commissione e le ammende inflitte a suddette imprese a tale titolo.
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1 Decisione 20 settembre 2006, C (2006) 4180, relativa a un procedimento ai sensi dell’articolo 81 [CE] e dell’articolo 53 dell’accordo SEE (caso COMP/F-1/38.121 — Raccordi).
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IMPORTANTE: Contro la decisione del Tribunale, entro due mesi a decorrere dalla data della sua notifica, può essere proposta un'impugnazione, limitata alle questioni di diritto, dinanzi alla Corte.
IMPORTANTE: Il ricorso di annullamento mira a far annullare atti delle istituzioni dell’Unione contrari al diritto dell’Unione. A determinate condizioni, gli Stati membri, le istituzioni europee e i privati possono investire la Corte di giustizia o il Tribunale di un ricorso di annullamento. Se il ricorso è fondato, l'atto viene annullato. L'istituzione interessata deve rimediare all’eventuale lacuna giuridica creata dall’annullamento dell’atto.


Qualora un lavoratore svolga le proprie attività in più di uno Stato membro, al fine di dirimere una controversia relativa ad un contratto di lavoro, si applica la legge del paese in cui adempie la parte sostanziale dei suoi obblighi professionali

Qualora un lavoratore svolga le proprie attività in più di uno Stato membro, al fine di dirimere una controversia relativa ad un contratto di lavoro, si applica la legge del paese in cui adempie la parte sostanziale dei suoi obblighi professionali
Infatti, l’obiettivo è di assicurare una tutela adeguata al lavoratore in quanto parte contraente più debole
La Convenzione di Roma sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali1, in materia civile e commerciale, per quanto riguarda il contratto di lavoro, prevede che, in linea di principio, esso sia disciplinato dalla legge scelta dalle parti. Tuttavia, tale scelta non può avere come conseguenza di privare il lavoratore della protezione minima assicuratagli dalle norme imperative della legge che gli sarebbe stata applicabile in mancanza di scelta (art. 6). Pertanto, quando le parti non hanno scelto la legge applicabile, il contratto di lavoro è disciplinato dalla legge del paese in cui il lavoratore «compie abitualmente il suo lavoro» o, in subordine, dalla legge del paese in cui si trova la sede del datore di lavoro, qualora il lavoratore non compia abitualmente il suo lavoro in un unico paese. In via eccezionale, il contratto è disciplinato dal diritto del paese con il quale esso presenta un collegamento più stretto.
Il sig. Heiko Koelzsch, residente in Germania, nel 1998 è stato assunto come conducente di trasporti internazionali dalla società di diritto lussemburghese Gasa Spedition Luxembourg S.A. – che era stata rilevata poi dalla società Ove Ostergaart Luxembourg S.A. – specializzata nel trasporto di fiori e piante dalla Danimarca verso destinazioni situate in prevalenza in Germania, ma anche in altri paesi europei. Gli autocarri della Gasa stazionano in Germania, dove la società non dispone né di una sede sociale né di uffici. Gli autocarri sono immatricolati in Lussemburgo e i conducenti beneficiano della previdenza sociale lussemburghese. Il contratto di lavoro del sig. Koelzsch, firmato nel 1998, prevedeva l’applicazione della legge lussemburghese in caso di controversie.
In seguito all’annuncio della ristrutturazione della Gasa e della riduzione dell’attività di trasporto in partenza dalla Germania, nel 2001, i dipendenti hanno creato, in Germania, un consiglio aziendale («Betriebsrat»), di cui il sig. Koelzsch ha fatto parte in qualità di membro supplente. Con lettera 13 marzo 2001, il direttore della Gasa ha risolto il contratto di lavoro del sig. Koelzsch con effetto dal 15 maggio 2001.
Dopo aver adito la giustizia tedesca che si è dichiarata territorialmente incompetente, nel 2002 il sig. Koelzsch ha citato la società Ove Ostergaard Luxembourg S.A., subentrata nei diritti della Gasa, dinanzi al Tribunal du travail de Luxembourg, affinché fosse condannata al risarcimento dei danni per licenziamento illegittimo, nonché al pagamento di un’indennità sostitutiva del preavviso e degli arretrati retributivi. Egli ha sostenuto che, sebbene il diritto lussemburghese fosse certamente applicabile al contratto di lavoro, tuttavia, in forza della Convenzione di Roma, egli non doveva essere privato della protezione derivante dall’applicazione delle disposizioni imperative della legge tedesca che vieta il licenziamento dei membri del consiglio aziendale («Betriebsrat»), in mancanza di scelta ad opera delle parti. Pertanto, egli ha fatto valere che il suo licenziamento era illegittimo in base alla normativa tedesca e alla giurisprudenza del Bundesarbeitsgericht (Corte federale del lavoro tedesca) che ha esteso il divieto di licenziamento ai membri supplenti.
Il Tribunal du travail (Lussemburgo) ha ritenuto che la controversia fosse soggetta unicamente al diritto lussemburghese e ciò è stato confermato dalla Cour d’appel e dalla Cour de cassation.
Nel marzo 2007 il sig. Koelzsch ha dunque adito il Tribunal d’arrondissement de Luxembourg con un ricorso per risarcimento danni, contro il Granducato di Lussemburgo, per erronea applicazione delle disposizioni della Convenzione di Roma da parte degli organi giurisdizionali nazionali.
Adita in appello dal sig. Koelzsch, la Cour d’appel de Luxembourg ha deciso di chiedere alla Corte di giustizia se, allorquando il lavoratore esegue la prestazione lavorativa in diversi paesi, ma ritorni sistematicamente in uno di essi, occorra considerare che la legge di tale paese possa applicarsi quale «legge del paese in cui il lavoratore svolge abitualmente il suo lavoro» ai sensi della Convenzione di Roma.
Nella sentenza pronunciata in data odierna, la Corte ricorda che l’art. 6 della Convenzione di Roma fissa norme di diritto internazionale privato speciali relative ai contratti individuali di lavoro. Tali norme derogano a quelle riguardanti rispettivamente la libertà di scelta della legge applicabile e i criteri di determinazione di quest’ultima in mancanza di una scelta siffatta. L’art. 6 limita quindi la libertà di scelta della legge applicabile. Esso prevede che le parti contrattuali non possano, convenzionalmente, escludere l’applicazione delle norme giuridiche imperative che disciplinerebbero il contratto in mancanza di una siffatta scelta. Tale articolo stabilisce poi criteri di collegamento specifici che sono, in primo luogo, quello del paese in cui il lavoratore «compie abitualmente il suo lavoro» e, successivamente, in mancanza di un tale luogo, quello della sede «che ha proceduto ad assumere il lavoratore».
A tal riguardo, la Corte constata che la Convenzione di Roma mira ad assicurare una tutela adeguata al lavoratore. Pertanto, qualora egli eserciti le sue attività in più di uno Stato contraente, la convenzione deve essere intesa nel senso che essa garantisce l’applicabilità del primo criterio che rinvia alla legge dello Stato in cui il lavoratore, in esecuzione del contratto, adempie la parte sostanziale dei suoi obblighi nei confronti del suo datore di lavoro e, quindi, alla legge del luogo in cui o a partire dal quale il lavoratore esercita effettivamente le sue attività professionali e, in mancanza di un centro di affari, alla legge del luogo in cui il medesimo svolge la maggior parte delle sue attività.
Invero, la legge applicabile è determinata dallo Stato in cui il lavoratore esercita la sua funzione economica e sociale in quanto l’ambiente professionale e politico influisce sull’attività lavorativa. Di conseguenza, l’osservanza delle norme di tutela del lavoro previste dal diritto di tale paese deve essere, per quanto possibile, garantita.
Tale criterio del luogo dell’esercizio delle attività professionali deve essere interpretato in senso ampio ed essere applicato, come nel caso di specie, quando il lavoratore svolge le sue attività in più di uno Stato contraente, sempreché il giudice nazionale sia in grado di individuare lo Stato con il quale il lavoro presenti un collegamento significativo.
Conseguentemente, spetterà alla Cour d’appel interpretare in senso ampio il suddetto criterio di collegamento, sancito dalla Convenzione di Roma, per stabilire se il sig. Koelzsch abbia compiuto abitualmente il suo lavoro in uno degli Stati contraenti e per individuare quale tra essi.
A tal fine, in considerazione della natura del lavoro nel settore dei trasporti internazionali, il giudice nazionale deve tener conto di tutti gli elementi che caratterizzano l’attività del lavoratore.
In particolare, esso deve stabilire in quale Stato si trovi il luogo a partire dal quale il lavoratore effettua le sue missioni di trasporto, riceve le istruzioni sulle sue missioni e organizza il suo lavoro, nonché il luogo in cui si trovano gli strumenti lavorativi. Esso deve anche verificare quali sono i luoghi in cui il trasporto è principalmente effettuato, i luoghi di scarico della merce nonché il luogo in cui il lavoratore ritorna dopo le sue missioni.

Testo completo
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1 Convenzione sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali, aperta alla firma a Roma il 19 giugno 1980 (GU 1980, L 266, pag. 1). La Convenzione di Roma è stata sostituita dal regolamento (CE) del Parlamento europeo e del Consiglio 17 giugno 2008. n. 593, sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali (Roma I) (GU L 177, pag. 6). Poiché tale regolamento si applica ai contratti conclusi dopo il 17 dicembre 2009, esso non trova applicazione nel caso di specie.
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IMPORTANTE: Il rinvio pregiudiziale consente ai giudici degli Stati membri, nell'ambito di una controversia della quale sono investiti, di interpellare la Corte in merito all’interpretazione del diritto dell’Unione o alla validità di un atto dell’Unione. La Corte non risolve la controversia nazionale. Spetta al giudice nazionale risolvere la causa conformemente alla decisione della Corte. Tale decisione vincola egualmente gli altri giudici nazionali ai quali venga sottoposto un problema simile.

giovedì 10 marzo 2011

La fornitura di pasti pronti per il consumo immediato negli stand di ristorazione o nei foyer dei cinema costituisce di norma una cessione di beni

La fornitura di pasti pronti per il consumo immediato negli stand di ristorazione o nei foyer dei cinema costituisce di norma una cessione di beni
In tal caso, i pasti preparati per essere consumati immediatamente costituiscono «prodotti alimentari» soggetti ad aliquota IVA ridotta
La sesta direttiva IVA 1 distingue la «cessione di un bene» dalla «prestazione di servizi» e le assoggetta, in linea di principio, all’aliquota IVA normale fissata da ciascuno Stato membro. La direttiva autorizza tuttavia gli Stati membri ad applicare un’aliquota IVA ridotta per talune categorie di cessioni di beni o di prestazioni di servizi. In applicazione di tale deroga, la normativa tedesca prevede un’aliquota IVA ridotta per le cessioni di beni che costituiscano vendite di «prodotti alimentari».
Il sig. Bog vendeva nei mercati settimanali bevande e piatti preparati, pronti per il consumo – in particolare, salsicce e patatine fritte – in tre identici chioschi-bar mobili. Questi veicoli disponevano di un’area protetta perché le vivande potessero essere consumate in loco (causa C-497/09). La CinemaxX gestisce cinema in varie città tedesche. Gli spettatori possono acquistare non soltanto dolciumi e bibite, ma anche porzioni, di varie dimensioni, di pop-corn e di «tortilla chips» («nachos») da consumare nel foyer o all’interno delle sale di proiezione (causa C-499/09). Il sig. Lohmeyer ha gestito, dal 1996 al 1999, vari stand di ristorazione specificamente destinati al consumo di piatti sul posto nonché uno stand per grigliate. Vi vendeva piatti pronti per il consumo: salsicce alla griglia, salsicce al curry, hot-dog, patatine fritte, bistecche, punte di petto, spiedini, costolette, ecc. (causa C-501/09). La Fleischerei Nier è una società che gestisce una macelleria e svolge servizio di catering (rosticceria a domicilio). Nell’ambito di tale attività fornisce piatti ordinati dai clienti in recipienti caldi e chiusi, mettendo inoltre a disposizione della clientela, su richiesta, stoviglie, posate, tavoli e personale di servizio (causa C-502/09).
In queste quattro controversie, le parti menzionate hanno dichiarato, nella rispettiva dichiarazione IVA, le operazioni di vendita delle vivande e dei pasti come soggette all’aliquota IVA ridotta. Le autorità tributarie tedesche rispettivamente competenti hanno contestato tali dichiarazioni ritenendo che le operazioni di fornitura di pasti in loco avrebbero dovuto essere assoggettate all’aliquota IVA normale. In tale contesto, il Bundesfinanzhof (Corte tributaria federale, Germania), che deve dirimere le cause, chiede alla Corte di giustizia se tali diverse attività di fornitura di vivande o di cibi pronti destinati al consumo immediato costituiscano una «cessione di beni» o una «prestazione di servizi». Nell’ipotesi in cui tali attività costituissero una cessione di beni, il giudice tedesco chiede se possano essere qualificate come vendite di «prodotti alimentari».
Nella sentenza pronunciata in data odierna, la Corte ricorda anzitutto che la sesta direttiva istituisce un sistema comune di IVA fondato segnatamente su una definizione uniforme delle operazioni imponibili. Al fine di determinare se un’operazione complessa unica debba essere qualificata come «cessione di beni» o come «prestazione di servizi» occorre prendere in considerazione tutte le circostanze in cui l’operazione si svolge, per ricercarne gli elementi caratteristici e identificarne gli elementi predominanti.
Orbene, per quanto riguarda le attività oggetto delle cause C-497/09, C-499/09 e C-501/09, vale a dire la vendita, in chioschi-bar mobili o in stand di ristorazione, di salsicce, patatine fritte e altri cibi pronti per essere immediatamente consumati caldi, la Corte osserva che l’elemento predominante è quello di una cessione di beni, poiché l’attività è costituita dalla cessione di vivande o di cibi pronti per il consumo immediato, mentre la loro preparazione, sommaria e standardizzata, è intrinsecamente connessa agli stessi. Inoltre, la messa a disposizione di installazioni che consentono a un numero limitato di clienti di consumare sul posto ha carattere puramente accessorio e minore. Di conseguenza la Corte ritiene che la fornitura di vivande o di cibi appena preparati, pronti per il consumo immediato in stand, in chioschi-bar mobili o nei foyer dei cinema, costituisca una cessione di beni, qualora dall’esame qualitativo dell’operazione nel suo complesso risulti che gli elementi di prestazione di servizi che precedono e accompagnano la cessione dei cibi non sono predominanti.
Per quanto riguarda invece le attività di catering, oggetto della causa C-502/09, la Corte rileva che esse non sono il risultato di una semplice preparazione standardizzata, ma contengono, al contrario, una componente di prestazione di servizi nettamente più rilevante, in quanto richiedono un lavoro e un know-how superiori, quali la creatività nella preparazione delle pietanze e nella loro presentazione. Esse possono altresì comprendere elementi che agevolano il consumo nonché elementi che presuppongono un certo intervento umano (fornitura di stoviglie, di posate, di arredi e loro pulizia). In presenza di condizioni di questo tipo, la Corte ritiene che, a parte il caso in cui l'operatore di catering si limiti a consegnare piatti standardizzati senza alcun altro elemento di servizio supplementare o il caso in cui, per altre particolari circostanze, la consegna dei piatti rappresenti l’elemento predominante dell’operazione, le attività di catering costituiscano prestazioni di servizi.
Infine, quanto alla nozione di «prodotti alimentari», la Corte ritiene che essa ricomprenda le vivande e i pasti che siano stati cotti, arrostiti, fritti o altrimenti preparati per il consumo immediato, in quanto servono da nutrimento ai consumatori.

Un segno composto esclusivamente da cifre può essere registrato come marchio comunitario

Un segno composto esclusivamente da cifre può essere registrato come marchio comunitario
Tuttavia, trattandosi di un’indicazione descrittiva del contenuto delle pubblicazioni oggetto della domanda di registrazione presentata dalla Technopol, il segno «1000» è privo di carattere distintivo
Secondo il regolamento sul marchio comunitario 1, possono costituire marchi comunitari tutti i segni che possono essere riprodotti graficamente, comprese le cifre, a condizione che tali segni siano adatti a distinguere i prodotti o i servizi di un’impresa da quelli di altre imprese. Di conseguenza, sono esclusi dalla registrazione i marchi composti esclusivamente da segni o indicazioni che possono servire per designare le caratteristiche dei prodotti o dei servizi interessati, come, ad esempio, la specie, la qualità o la quantità.
Nel 2005, l’Agencja Wydawnicza Technopol sp. z o.o., editore polacco di opuscoli e di periodici contenenti, in particolare, parole crociate e giochi, ha presentato dinanzi all’UAMI (l’Ufficio dei marchi comunitari) una domanda di registrazione come marchio comunitario del segno «1000». L’UAMI ha respinto tale domanda. Ha affermato che il suddetto segno poteva designare il contenuto delle pubblicazioni della Technopol e che, comunque, non era distintivo, perché verrebbe percepito dal consumatore come l’elogio di dette pubblicazioni e non come un’indicazione di provenienza.
La Technopol ha impugnato la decisione dell’UAMI dinanzi al Tribunale di primo grado. Nella propria sentenza del novembre 2009 2, il Tribunale ha confermato la decisione dell’UAMI, ritenendo che il segno «1000» rinvii ad una quantità e, dei rispetto ai prodotti oggetto della domanda di registrazione, sarà percepito dal pubblico di riferimento, immediatamente e senza altra riflessione, come una descrizione delle caratteristiche dei prodotti stessi, segnatamente la quantità di pagine nonché di opere, informazioni e giochi raccolti, o la classificazione gerarchica dei riferimenti contenuti. La Technopol ha allora impugnato la sentenza dinanzi alla Corte di giustizia.
La Corte rammenta, anzitutto, che uno degli interessi generali del regolamento sul marchio comunitario consiste nell’assicurare che segni descrittivi di una o più caratteristiche dei prodotti o dei servizi per i quali è richiesta una registrazione come marchio possano essere liberamente utilizzati da tutti gli operatori economici che offrono simili prodotti o servizi.
Inoltre, per poter negare la registrazione di un segno costituito esclusivamente da cifre con la motivazione che esso designa una quantità, si deve ragionevolmente prevedere che, agli occhi degli ambienti interessati, la quantità indicata da tali cifre caratterizzi i prodotti o i servizi per i quali è chiesta la registrazione.
Il Tribunale ha correttamente dichiarato che quando una domanda di registrazione ha ad oggetto, in particolare, una categoria di prodotti il cui contenuto è facilmente e tipicamente designato dalla quantità delle sue unità – come, nel caso di specie, periodici contenenti in particolare parole crociate – è ragionevole prevedere che un segno costituito da cifre sarà effettivamente riconosciuto dagli ambienti interessati come una descrizione di detta quantità e dunque di una caratteristica di tali prodotti.
Quanto all’argomento dedotto dalla Technopol secondo cui l’UAMI non avrebbe seguito la propria prassi anteriore, la Corte sottolinea che l’Ufficio, nell’ambito dell’esame delle domande di registrazione, deve prendere in considerazione le decisioni già adottate per domande simili e chiedersi, con particolare attenzione, se occorra o meno decidere nello stesso senso. Ciò posto, è necessario che l’esame di ogni domanda di registrazione sia rigoroso e completo per evitare l’indebita registrazione dei marchi. Nel caso di specie è risultato che, contrariamente alle domande di registrazione di marchi presentate in precedenza per segni costituiti da cifre, la presente domanda di registrazione era in contrasto con uno degli impedimenti alla registrazione enunciati nel regolamento sul marchio comunitario.
Conseguentemente, la Corte respinge l’impugnazione della Technopol.

Secondo l’avvocato generale Yves Bot, le cellule totipotenti che hanno l’intrinseca capacità di evolversi in un essere umano completo devono essere qualificate da un punto di vista giuridico come embrioni umani e, pertanto, deve esserne esclusa la brevettabilità

Secondo l’avvocato generale Yves Bot, le cellule totipotenti che hanno l’intrinseca capacità di evolversi in un essere umano completo devono essere qualificate da un punto di vista giuridico come embrioni umani e, pertanto, deve esserne esclusa la brevettabilità
Nemmeno un procedimento che utilizza cellule staminali embrionali di diverso tipo, dette cellule pluripotenti, può essere brevettato ove richieda, preventivamente, la distruzione o l’alterazione dell’embrione
Il sig. Oliver Brüstle è titolare di un brevetto, depositato il 19 dicembre 1997, relativo a cellule progenitrici 1 neurali 2 isolate e depurate, prodotte a partire da cellule staminali embrionali umane utilizzate per curare le malattie neurologiche. Secondo le indicazioni fornite dal sig. Brüstle, esistono già prime applicazioni cliniche, segnatamente su pazienti affetti dal morbo di Parkinson.
A seguito della domanda presentata da Greenpeace eV, il Bundespatentgericht (Tribunale federale in materia di brevetti, Germania) ha dichiarato la nullità del brevetto del sig. Brüstle, nella parte in cui verte su procedimenti che consentono di ottenere cellule progenitrici a partire da cellule staminali di embrioni umani.
Il Bundesgerichtshof (Corte federale di cassazione, Germania), adito in appello dal sig. Brüstle, ha deciso di sospendere il giudizio e di chiedere che la Corte di giustizia si pronunzi sull’interpretazione, in particolare, della nozione di «embrione umano», non definita dalla direttiva 98/44/CE sulla protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche 3. Si tratta di sapere se l'esclusione della brevettabilità dell'embrione umano riguardi tutti gli stadi della vita a partire dalla fecondazione dell'ovulo o se debbano essere soddisfatte altre condizioni, ad esempio che sia raggiunto un determinato stadio di sviluppo.
In via preliminare, l’avvocato generale Yves Bot sottolinea che la Corte è chiamata a pronunciarsi, per la prima volta, sulla nozione di «utilizzazione di embrioni umani a fini industriali o commerciali» prevista dalla direttiva 98/44. Dopo aver spiegato inizialmente che è consapevole dell’estrema delicatezza che riveste tale questione e dell’importanza delle sfide filosofiche, morali, umane, economiche e finanziarie, l’avvocato generale inizia la sua analisi giuridica sottolineando che si deve dare una definizione autonoma dell’embrione, propria del diritto dell’Unione, dal momento che la direttiva persegue scopi di armonizzazione, al fine di introdurre una protezione efficace e armonizzata delle invenzioni biotecnologiche. Questa analisi è d’altronde suffragata dalle prime interpretazioni giurisprudenziali della Corte relative alla normativa in parola.
Dopo aver rilevato le significative differenze esistenti tra le normative degli Stati membri e l’impossibilità - allo stato attuale delle conoscenze scientifiche - di utilizzare un siffatto criterio che possa essere ammesso da tutti gli Stati membri, l’avvocato generale fa riferimento al disposto della direttiva che (al suo art. 5, n. 1) tutela il «corpo umano, ai diversi stadi della sua costituzione e del suo sviluppo».
Egli osserva quindi che la caratteristica essenziale delle cellule totipotenti, che compaiono sin dalla fusione dei gameti e che sussistono in tale forma solo nei primi giorni dello sviluppo, consiste nel fatto che ciascuna di esse ha la capacità di evolversi in un essere umano completo. Quindi, dal momento che tali cellule costituiscono il primo stadio del corpo umano che diverranno, le stesse devono essere giuridicamente qualificate come embrioni, la cui brevettabilità dovrà essere esclusa. Rientrano pertanto in tale definizione gli ovuli non fecondati in cui sia stato impiantato il nucleo di una cellula matura e gli ovuli non fecondati stimolati a separarsi attraverso la partenogenesi, qualora con queste modalità vengano ottenute cellule totipotenti.
Parimenti, deve essere attribuita la qualifica di embrione alla blastocisti – stadio successivo dello sviluppo embrionale considerato in un determinato momento, ossia circa cinque giorni dopo la fecondazione – in quanto, secondo l’avvocato generale, il principio della dignità umana, cui fa riferimento la direttiva 4, si applica non soltanto alla persona umana esistente, al bambino che è nato, ma anche al corpo umano a partire dal primo stadio del suo sviluppo, ossia da quello della fecondazione.
Per contro, le cellule staminali embrionali pluripotenti, prese isolatamente, non rientrano nella nozione di embrione poiché non sono individualmente più in grado di svilupparsi per divenire un individuo completo. Esse possono «soltanto» differenziarsi in vari organi, elementi del corpo umano. Sono queste le cellule interessate dall’invenzione su cui verte il brevetto del sig. Brüstle, considerato che il loro prelievo dall’embrione viene effettuato allo stadio della blastocisti.
Tuttavia, non si può evitare di prendere in considerazione l’origine di siffatta cellula pluripotente. Che essa provenga da un qualsivoglia stadio dell’evoluzione del corpo umano non è di per sé un problema, alla sola condizione che il suo prelievo non comporti la distruzione di tale corpo umano nella fase della sua evoluzione in cui il prelievo è effettuato. Secondo l’avvocato generale, si deve quindi concordare sul fatto che le invenzioni riguardanti le cellule pluripotenti possono essere brevettabili solo se possono essere ottenute senza provocare un danno per un embrione, che si tratti della sua distruzione o della sua alterazione.
Dare un’applicazione industriale ad un’invenzione che utilizza cellule staminali embrionali significherebbe utilizzare gli embrioni umani come un banale materiale di partenza, il che sarebbe contrario all’etica e all’ordine pubblico.
In conclusione, l’avvocato generale reputa che un’invenzione non possa essere brevettabile quando l’attuazione del procedimento richiede, preventivamente, sia la distruzione di embrioni umani, sia la loro utilizzazione come materiale di partenza, anche qualora, al momento della domanda di brevetto, la descrizione del detto procedimento non contenga alcun riferimento all’utilizzo di embrioni umani.
L’avvocato generale rammenta tuttavia che la brevettabilità delle utilizzazioni di embrioni umani a fini industriali o commerciali non è vietata, in forza della direttiva, soltanto ove riguardi le invenzioni aventi un fine terapeutico o diagnostico che si applicano e che sono utili all’embrione umano – ad esempio per correggere una malformazione e migliorare le sue possibilità di vita.

mercoledì 9 marzo 2011

La cittadinanza dell'Unione impone che uno Stato membro autorizzi i cittadini di uno Stato terzo, genitori di un bambino in possesso della cittadinanza di detto Stato membro, ad ivi soggiornare e lavorare nella misura in cui un diniego priverebbe il figlio del godimento reale ed effettivo dei diritti connessi allo status di cittadino dell'Unione

La cittadinanza dell'Unione impone che uno Stato membro autorizzi i cittadini di uno Stato terzo, genitori di un bambino in possesso della cittadinanza di detto Stato membro, ad ivi soggiornare e lavorare nella misura in cui un diniego priverebbe il figlio del godimento reale ed effettivo dei diritti connessi allo status di cittadino dell'Unione
Questa regola opera anche quando il figlio non ha mai esercitato il suo diritto alla libera circolazione nel territorio degli Stati membri
Il sig. Ruiz Zambrano e sua moglie, entrambi cittadini colombiani, hanno chiesto asilo in Belgio a causa dello stato di guerra civile prevalente in Colombia. Le autorità belghe hanno negato loro lo status di rifugiati e hanno loro ordinato di abbandonare il territorio belga.
Mentre la coppia continuava a risiedere in Belgio attendendo l'esito dell'istanza di regolarizzazione del soggiorno, la moglie del sig. Ruiz Zambrano ha dato alla luce due figli, che hanno acquisito la cittadinanza belga.
Pur non essendo ancora in possesso di un permesso di lavoro, il sig. Ruiz Zambrano ha concluso un contratto di lavoro a tempo indeterminato e a orario pieno con un'impresa stabilita in Belgio. Grazie a questo lavoro, al momento della nascita del suo primo figlio avente cittadinanza belga egli disponeva di mezzi sufficienti a far fronte al suo mantenimento. Inoltre, tale attività professionale portava al versamento dei contributi previdenziali e dei contributi sociali del datore di lavoro.
In seguito, il sig. Ruiz Zambrano è rimasto più volte disoccupato, circostanza che l’ha indotto a presentare istanze di indennità di disoccupazione. Dette istanze sono state respinte poiché, secondo le autorità belghe, egli non era in regola con la normativa belga in materia di soggiorno degli stranieri e non aveva il diritto di lavorare in Belgio.
I coniugi Ruiz Zambrano hanno inoltre chiestoi, in qualità di ascendenti di cittadini belgi, il permesso di soggiorno in Belgio. Tuttavia, le autorità belghe hanno respinto l'istanza, ritenendo che essi abbiano volutamente omesso di compiere i passi necessari presso le autorità colombiane per il riconoscimento della cittadinanza colombiana dei loro figli, e ciò proprio allo scopo di regolarizzare il loro soggiorno nel paese.
Il sig. Ruiz Zambrano ha impugnato dinanzi al giudice le decisioni di rigetto della domanda di permesso di soggiorno e delle indennità di disoccupazione poiché, in particolare, in qualità di ascendente di figli belgi in tenera età, egli dovrebbe poter soggiornare e lavorare in Belgio.
Il tribunal du travail de Bruxelles (Belgio), giudice del lavoro competente, adito per l'annullamento delle decisioni di rigetto delle indennità di disoccupazione, chiede alla Corte di giustizia se il sig. Ruiz Zambrano possa soggiornare e lavorare in Belgio in base al diritto dell'Unione. Con tali questioni, il giudice belga vorrebbe sapere, in particolare, se il diritto dell'Unione sia applicabile al caso di specie persino qualora i figli belgi del sig. Ruiz Zambrano non abbiano mai esercitato il loro diritto alla libera circolazione nel territorio degli Stati membri.
Con la sua odierna sentenza, la Corte ricorda che, sebbene la normativa sui presupposti per l'acquisto della cittadinanza in uno Stato membro rientri nella competenza esclusiva di detto Stato, è pacifico che i figli del sig. Ruiz Zambrano, nati in Belgio, hanno acquisito la cittadinanza belga. Pertanto, essi godono dello status di cittadini dell'Unione, che è destinato ad essere lo status fondamentale dei cittadini degli Stati membri.
Alla luce di ciò, la Corte rileva che il diritto dell'Unione osta a provvedimenti nazionali che abbiano l'effetto di privare i cittadini dell'Unione del godimento reale ed effettivo dei diritti attribuiti dal loro status di cittadini dell'Unione. Ebbene, il diniego di soggiorno opposto a cittadino di uno Stato terzo, nello Stato membro dove risiedono i suoi figli in tenera età, cittadini di detto Stato membro e che questi abbia a proprio carico, nonché il diniego di concedere a detta persona un permesso di lavoro possono produrre un effetto del genere.
Infatti, si deve tenere presente che un divieto di soggiorno di tal genere porterà alla conseguenza che tali figli si troveranno costretti ad abbandonare il territorio dell'Unione per accompagnare i loro genitori. Parimenti, qualora ai genitori non venga rilasciato un permesso di lavoro, questi ultimi rischiano di non disporre dei mezzi necessari per far fronte alle proprie esigenze e a quelle della loro famiglia, circostanza che porterebbe parimenti alla conseguenza che i loro figli, cittadini dell'Unione, si troverebbero costretti ad abbandonare il territorio di quest'ultima. Ciò posto, tali figli si troverebbero, di fatto, nell'impossibilità di godere realmente dei diritti loro attribuiti dal loro status di cittadini dell'Unione.
Alla luce di ciò, la Corte rileva che il diritto dell'Unione osta a che uno Stato membro, da un lato, neghi a un cittadino di uno Stato terzo - che si faccia carico dei propri figli in tenera età, cittadini dell'Unione - il soggiorno nello Stato membro di residenza di questi ultimi, di cui essi abbiano la cittadinanza, e, dall'altro, neghi al medesimo cittadino di uno Stato terzo un permesso di lavoro, qualora decisioni siffatte possano privare i figli del godimento reale ed effettivo dei diritti connessi allo status di cittadini dell'Unione.

Statistiche giudiziarie 2010: i procedimenti pregiudiziali non sono stati mai trattati così rapidamente

Statistiche giudiziarie 2010: i procedimenti pregiudiziali non sono stati mai trattati così rapidamente
Nel contempo, il numero di cause promosse non cessa d’aumentare e raggiunge quest’anno un livello senza precedenti
In tutta la storia dell’istituzione, mai tante cause sono state portate dinanzi ai tre organi giurisdizionali della Corte di giustizia dell’Unione europea: 1 406 cause sono state promosse quest’anno. Tale cifra testimonia l’aumento costante del volume del contenzioso dell’Unione. Si sottolinea del pari un’altra forte tendenza nel 2010: la diminuzione globale della durata dei procedimenti.
La Corte
La Corte è stata adita nel 2010 con 631 nuove cause, il che rappresenta un aumento molto considerevole rispetto al 2009 (562 cause) e costituisce il numero più elevato di cause proposte nella storia della Corte. La situazione è identica per quanto riguarda le domande di pronuncia pregiudiziale. Il numero di procedimenti pregiudiziali proposti quest’anno è, per il secondo anno consecutivo, il più elevato mai raggiunto e, rispetto al 2009, in aumento del 27,4% (385 cause nel 2010 rispetto a 302 cause nel 2009).
La Corte ha definito 574 cause nel 2010, cifra che rappresenta una leggera diminuzione rispetto all’anno precedente (588 cause definite nel 2009).
Per quanto riguarda la durata dei procedimenti, i dati statistici si rivelano molto positivi. Così, relativamente ai rinvii pregiudiziali, tale durata è di 16,1 mesi. Un’analisi comparativa mostra che, per tutto il periodo relativamente al quale la Corte dispone di dati statistici affidabili, la durata media di trattazione delle cause pregiudiziali ha raggiunto il suo livello minimo nel 2010. Quanto ai ricorsi diretti ed alle impugnazioni, la durata media di trattazione è stata, rispettivamente, di 16,7 mesi e di 14,3 mesi (a fronte di 17,1 mesi e di 15,4 mesi nel 2009).
Il Tribunale
Dal punto di vista statistico, l’anno 2010 è stato contraddistinto da diverse tendenze. La prima tendenza è il forte aumento del numero di cause promosse, che passa da 568 (nel 2009) a 636 (nel 2010), livello mai raggiunto sino ad ora. La seconda tendenza è costituita dal mantenimento del numero di cause definite, sensibilmente superiore a 500 (527 cause definite). Tale risultato non è stato tuttavia sufficiente a contenere l’aumento del numero delle cause pendenti, che è di 1 300 cause al 31 dicembre 2010. La terza tendenza riguarda la durata del procedimento, criterio essenziale di valutazione dell’attività giurisdizionale. Per effetto dell’enfasi posta sulla celerità di trattazione delle cause, tale durata si è significativamente ridotta, in media di 2,5 mesi (passando da 27,2 mesi nel
2009 a 24,7 mesi nel 2010). Tale diminuzione è ancora più sensibile per quanto riguarda le cause definite con sentenza nelle materie che si collocano, a partire dalla creazione di quest’organo giurisdizionale, al cuore del contenzioso del Tribunale – ossia le materie diverse dalle impugnazioni e dalla proprietà intellettuale – per le quali si è registrata una riduzione di più di sette mesi nella durata del procedimento.
Il Tribunale della funzione pubblica
Le statistiche giudiziarie del Tribunale della funzione pubblica mostrano un notevole aumento del numero delle cause promosse nel 2010 (139 cause, a fronte di 113 nel 2009).
Dal canto suo, il numero di cause definite (129) è inferiore a quello dell’anno precedente (155).
Il numero di cause pendenti è in leggero aumento rispetto all’anno precedente (185 cause al 31 dicembre 2010 a fronte di 175 al 31 dicembre 2009). La durata media del procedimento è del pari in aumento (18,1 mesi nel 2010 a fronte di 15,1 mesi nel 2009).
Non sembra tuttavia che tali cifre rispecchino una tendenza strutturale.

Il Tribunale riduce le ammende di taluni partecipanti all'intesa sulle apparecchiature di comando con isolamento in gas

Il Tribunale riduce le ammende di taluni partecipanti all'intesa sulle apparecchiature di comando con isolamento in gas
Conferma, tuttavia, l’ammenda di EUR 396, 6 milioni a carico della Siemens Germania
Con decisione 24 gennaio 2007 1, la Commissione ha inflitto ammende per complessivi EUR 750 712 500 a venti società 2, poiché hanno partecipato ad un’intesa sul mercato delle apparecchiature di comando con isolamento in gas (GIS). Le pratiche anticoncorrenziali consistevano, in particolare, in un coordinamento a livello mondiale della vendita di progetti di GIS che implicava la ripartizione dei mercati, l’attribuzione di quote e il mantenimento delle stesse, l’assegnazione di progetti di GIS a produttori prestabiliti e la manipolazione delle procedure di gara per garantire che i contratti fossero aggiudicati a tali produttori. L’infrazione consisteva altresì nella fissazione dei prezzi mediante complessi accordi sui progetti di GIS che non venivano assegnati, nella risoluzione dei contratti di licenza stipulati con società non appartenenti all’intesa e nello scambio di informazioni commerciali sensibili.
Tra le società sanzionate figurano la Alstom, la Areva, la Schneider Electric SA, la Siemens AG, la Siemens Aktiengesellschaft Österreich, la Siemens Transmission & Distribution SA (SEHV), la Siemens Transmission & Distribution Ltd. (Reyrolle) e la VA Tech Transmission & Distribution GmbH & Co KEG (KEG). L’ammenda più elevata, pari a EUR 396 562 500, è stata inflitta alla Siemens AG.
Alstom ha partecipato all’intesa fino a quando le sue attività nel settore in questione sono state cedute al gruppo Areva. Infatti, le attività nel settore considerato delle controllate Areva T & D SA e Areva T & D AG, ormai detenute dalla Areva T & D Holding SA e dalla Areva, hanno proseguito la partecipazione all’intesa nel corso degli ultimi quattro mesi. Conseguentemente:
- alla Alstom è stata inflitta un’ammenda individuale di EUR 11 475 000 ed una, in solido con la Areva T & D SA, di EUR 53 550 000;
- alla Areva T & D SA è stata inflitta un’ammenda di EUR 53 550 000, in solido con la Alstom, di cui EUR 25 500 000 da pagare in solido con la Areva, la Areva T & D Holding e la Areva T & D AG.
La Commissione ha irrogato ammende anche ad altre imprese tenendo conto della loro struttura, nonché della durata della partecipazione di ciascuna all’infrazione:
- Reyrolle: EUR 22 050 000;
- Siemens Österreich e KEG: EUR 12 600 000 in solido con la Reyrolle;
- SEHV e Magrini: EUR 22 050 000, di cui EUR 17 550 000 in solido con la Reyrolle e EUR 4 500 000 in solido con la Schneider Electric.
Le società sanzionate hanno proposto ricorso dinanzi al Tribunale 3 chiedendo l’annullamento della decisione della Commissione ed, eventualmente, la riduzione delle rispettive ammende.
Quanto alla Alstom e alle società del gruppo Areva, il Tribunale considera che, per valutare la fondatezza della maggiorazione del 50% dell’importo di base, decisa dalla Commissione per il loro ruolo di capofila dell’infrazione, occorre comparare il loro comportamento con quello di altre imprese coinvolte nell’intesa.
Il Tribunale constata che sussiste una differenza sostanziale tra la durata di esercizio delle funzioni di «segretaria europea» dell’intesa da parte della Siemens e la durata di esercizio di queste stesse funzioni da parte dell’impresa diretta dalla Alstom e dalle società del gruppo Areva. Esso considera che i principi di uguaglianza e di proporzionalità esigono che la maggiorazione dell’importo di base dell’ammenda vari in ragione del periodo durante il quale dette imprese sono state capofila dell’infrazione.
Di conseguenza, stabilendo una maggiorazione dell’importo di base dell’ammenda uguale per la Alstom e le società del gruppo Areva, da un lato, e per la Siemens, dall’altro, la Commissione non ha rispettato detti principi.
Il Tribunale annulla la decisione della Commissione su tale punto e decide di ridurre la maggiorazione dell’importo di base delle ammende a carico della Alstom e delle società del gruppo Areva. Infligge, così, le seguenti ammende:
- Alstom: EUR 10 327 500;
- Alstom: EUR 48 195 000, in solido con la Areva T & D SA; EUR 20 400 000 dell’importo dovuto dalla Areva T & D SA sono da pagarsi in solido tra quest’ultima e le società Areva T & D AG, Areva e Areva T & D Holding SA.
Quanto alle società Siemens Österreich, KEG, Siemens Transmission & Distribution Ltd (Reyrolle), Siemens Transmission & Distribution SA (SEHV) nonché Magrini, il Tribunale ritiene, anzitutto, che la Commissione sia incorsa in errore constatando un’infrazione da parte loro per il periodo compreso tra il 1° aprile e il 30 giugno 2002.
Precisa, quindi, che, riguardo all’imputazione del comportamento delle imprese che hanno partecipato all’intesa e all’applicazione delle regole sulla solidarietà nel pagamento delle ammende, le entità giuridiche che hanno partecipato in proprio ad un’infrazione e che sono state successivamente rilevate da un’altra società continuano a rispondere personalmente del proprio comportamento illecito precedente allorché non sono state assorbite sic et simpliciter dall’acquirente, ma hanno proseguito le proprie attività quali controllate. In tale ipotesi, l’acquirente potrebbe solo essere considerato responsabile del comportamento della controllata a partire dal momento dell’acquisizione, qualora la controllata prosegua l’infrazione e sia dimostrabile la responsabilità della nuova controllante.
Il Tribunale considera che identico principio deve applicarsi, peraltro, laddove, anteriormente alla sua acquisizione, la società rilevata abbia partecipato all’infrazione non a titolo personale, ma quale controllata di un altro gruppo, com’è stato per la SEHV e la Magrini.
Il Tribunale constata, poi, che la solidarietà nel pagamento dell’ammenda attiene unicamente al periodo di infrazione durante il quale le diverse società formavano un’unica entità economica e costituivano un’impresa ai sensi del diritto della concorrenza. Esso ritiene, inoltre, che spetti alla Commissione determinare la quota-parte che ciascuna società deve sopportare rispetto ai propri condebitori in solido per il comportamento illecito, per un periodo preciso. In mancanza di indicazioni della Commissione al riguardo, si deve considerare che essa imputi loro in uguale misura la responsabilità del suddetto comportamento.
Il Tribunale considera che, non stabilendo l’importo delle ammende inflitte alla luce della durata della partecipazione all’intesa delle diverse società nell’ambito di una stessa impresa, la Commissione ha violato il principio di individualità delle pene e delle sanzioni.
Di conseguenza, il Tribunale decide di annullare la decisione della Commissione relativamente al calcolo dell’importo dell’ammenda inflitta alla SEHV e alla Magrini e alla determinazione degli importi da pagarsi in solido tra le società appartenenti al gruppo VA Technologie. Il Tribunale fissa le ammende seguenti:
- Siemens Transmission & Distribution SA (SEHV) e Magrini, in solido con la Schneider Electric SA: EUR 8 100 000;
- Siemens Transmission & Distribution Ltd (Reyrolle), in solido con le società Siemens AG Österreich, KEG, Siemens Transmission & Distribution SA (SEHV) e Magrini: EUR 10 350 000;
- Siemens Transmission & Distribution Ltd (Reyrolle), in solido con la Siemens AG Österreich e la KEG: EUR 2 250 000;
- Siemens Transmission & Distribution Ltd (Reyrolle): EUR 9 450 000.
Quanto alla Siemens AG, il Tribunale respinge tutti gli argomenti da essa addotti e conferma a suo carico l’ammenda di EUR 396 562 500.
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IMPORTANTE: Contro la decisione del Tribunale, entro due mesi a decorrere dalla data della sua notifica, può essere proposta un'impugnazione, limitata alle questioni di diritto, dinanzi alla Corte.
IMPORTANTE: Il ricorso di annullamento mira a far annullare atti delle istituzioni dell’Unione contrari al diritto dell’Unione. A determinate condizioni, gli Stati membri, le istituzioni europee e i privati possono investire la Corte di giustizia o il Tribunale di un ricorso di annullamento. Se il ricorso è fondato, l'atto viene annullato. L'istituzione interessata deve rimediare all’eventuale lacuna giuridica creata dall’annullamento dell’atto. 

Secondo l’avvocato generale Ján Mazák il rifiuto assoluto, da parte della società di prodotti cosmetici Pierre-Fabre, di consentire ai propri distributori francesi di vendere i propri prodotti su Internet è sproporzionato

Secondo l’avvocato generale Ján Mazák il rifiuto assoluto, da parte della società di prodotti cosmetici Pierre-Fabre, di consentire ai propri distributori francesi di vendere i propri prodotti su Internet è sproporzionato
A tale divieto non può essere applicata l’esenzione per categoria, ma esso potrebbe – a determinate condizioni – beneficiare dell’esenzione individuale ai sensi dell’art. 81, n. 3, CE
L’art. 81 CE (divenuto art. 101 del Trattato sul Funzionamento dell'Unione europea) vieta gli accordi che hanno per oggetto o per effetto di restringere la concorrenza. L’art. 81, n. 3, CE stabilisce, a determinate condizioni, un’esenzione per gli accordi che migliorano la distribuzione dei beni o promuovono il progresso economico. Inoltre, una serie di regolamenti dispone che taluni tipi di accordi possono usufruire di un’esenzione per categoria. Uno di tali regolamenti, il Regolamento di esenzione per categoria degli accordi verticali 1 prevede un’esenzione per categoria applicabile agli accordi di distribuzione che soddisfano determinati criteri. Questo regolamento contiene peraltro un elenco di cosiddette «restrizioni gravi», che non possono beneficiare dell’esenzione per categoria.
La Pierre Fabre Dermo-Cosmétique («PFDC»), produce un’ampia gamma di prodotti cosmetici e per l’igiene personale. I contratti di distribuzione della PFDC in Francia relativi ai marchi Avène, Klorane, Galénic e Ducray comprendono una clausola in forza della quale tutte le vendite devono essere effettuate in uno spazio fisico e in presenza di un laureato in farmacia, restringendo così di fatto tutte le forme di vendita via Internet.
Nell’ottobre 2008, a seguito di un’indagine, il Conseil de la concurrence (Consiglio francese per la Concorrenza), ora Autorité de la Concurrence (Autorità francese per la Concorrenza), ha dichiarato che gli accordi di distribuzione della PFDC, vietando di fatto tutte le vendite su Internet, costituivano accordi anticoncorrenziali che violavano il Codice del Commercio francese, nonché il diritto della concorrenza dell’UE. Il Consiglio per la concorrenza ha affermato che la PFDC limitava la libertà commerciale dei suoi distributori e restringeva la scelta dei consumatori, concludendo che tale comportamento equivaleva ad un divieto di vendite attive o passive. Il Consiglio per la concorrenza ha pertanto dichiarato che il divieto di vendite su Internet aveva necessariamente per oggetto la limitazione della concorrenza e integrava una restrizione grave alla quale non poteva essere applicata l’esenzione per categoria. Il Consiglio per la concorrenza ha inoltre affermato che agli accordi di distribuzione non poteva essere applicata un’esenzione individuale ai sensi dell'art. 81, n. 3, CE, poiché la PFDC non aveva dimostrato il progresso economico né che la restrizione della concorrenza fosse indispensabile.
La PFDC ha impugnato questa decisione dinanzi alla Cour d’appel de Paris (Corte d’appello di Parigi), la quale ha chiesto alla Corte di giustizia se il divieto generale ed assoluto di vendite su Internet costituisca una restrizione «grave» della concorrenza per oggetto, se tale accordo possa beneficiare di un’esenzione per categoria e se gli si possa applicare un’esenzione individuale a norma dell’art. 81, n. 3, CE. Nelle sue conclusioni in data odierna, l’avvocato generale Ján Mazák giunge in primo luogo alla conclusione che un divieto generale e assoluto di vendere su Internet nel contesto di una rete di distribuzione selettiva, che ecceda quanto obiettivamente necessario per distribuire prodotti in maniera adeguata tenendo conto delle loro caratteristiche materiali, della loro aura e della loro immagine, ha un oggetto restrittivo della concorrenza e rientra nell’art. 81, n. 1, CE.
A questo proposito, l'avvocato generale ritiene oggettivamente infondata l’affermazione della PFDC secondo cui il divieto sarebbe giustificato da motivi di sanità pubblica, in quanto l’uso corretto dei suoi prodotti richiederebbe il consiglio di un farmacista. Secondo l'avvocato generale, è chiaro che i prodotti in esame non sono prodotti medicinali e che non esistono disposizioni che obblighino a venderli in uno spazio fisico ed esclusivamente in presenza di un laureato in farmacia.
Per quanto riguarda l’obiettivo di preservare l’immagine di lusso dei prodotti di bellezza in questione, l'avvocato generale Mazák osserva che, in passato, la Corte di giustizia ha dichiarato che gli accordi di distribuzione selettiva possono essere giustificati per preservare l’aura e l’immagine dei prodotti in esame. Pur riconoscendo che i prodotti cosmetici e per l’igiene personale, in linea di principio, si prestano ad un accordo di distribuzione selettiva e che la presenza di un farmacista può migliorare l’immagine di tali prodotti, l'avvocato generale ritiene tuttavia che il giudice nazionale debba esaminare se un divieto generale ed assoluto di vendite su Internet sia proporzionato. A suo avviso, dato che il produttore potrebbe imporre condizioni adeguate, ragionevoli e non discriminatorie sulle vendite via Internet, tutelando in tal modo l’immagine dei suoi prodotti, un divieto generale e assoluto di vendite su Internet potrebbe essere proporzionato solo in circostanze realmente eccezionali. L'avvocato generale suggerisce che il giudice nazionale esamini se informazioni e consigli possano essere adeguatamente forniti via Internet. Inoltre, l'avvocato generale rileva che un divieto di vendite su Internet esclude un moderno strumento di distribuzione, che consentirebbe ai clienti che si trovano al di fuori del bacino di riferimento di un punto di vendita fisico di acquistare tali prodotti, il che, insieme alla trasparenza dei prezzi che le vendite su Internet comportano, accresce la concorrenza all’interno del marchio.
L'avvocato generale Mazák afferma poi che, a suo parere, siffatto divieto di vendite su Internet restringe sia le vendite attive sia le vendite passive, impedendo di avvalersi di un moderno strumento di comunicazione e commercializzazione. Pertanto, esso costituisce una restrizione grave ai sensi del Regolamento sull’esenzione per categoria degli accordi verticali e, in quanto tale, non può beneficiare dell’esenzione da esso prevista. A questo riguardo, l'avvocato generale non condivide l’affermazione della PFDC secondo cui le vendite su Internet devono essere considerate vendite a partire da un luogo di stabilimento (virtuale) non autorizzato.
Da ultimo, l'avvocato generale ricorda che qualsiasi accordo anticoncorrenziale che restringa la concorrenza e sia, in linea di principio, vietato dell'art. 81, n. 1, CE, può beneficiare, in linea di massima, dell’esenzione stabilita dell'art. 81, n. 3, CE. Per determinare se tale situazione si verifichi, il giudice del rinvio deve verificare se l’accordo in oggetto soddisfa i quattro criteri contenuti in tale disposizione: in primo luogo, esso deve contribuire a migliorare la produzione o la distribuzione dei prodotti in oggetto o promuovere il progresso tecnico o economico; in secondo luogo, una congrua parte dell’utile che ne deriva deve essere riservata ai consumatori; in terzo luogo, non deve imporre alle parti dell’accordo restrizioni non indispensabili e, in quarto luogo, non deve fornire la possibilità di eliminare la concorrenza. Tuttavia, dato che dal fascicolo sottoposto alla Corte non risultano elementi sufficienti sul punto, l'avvocato generale Mazák ritiene che la Corte non sia in condizione di fornire al giudice del rinvio indicazioni più specifiche al riguardo.