sabato 7 maggio 2011

La direttiva sul rimpatrio dei migranti irregolari osta ad una normativa nazionale che punisce con la reclusione il cittadino di un paese terzo in soggiorno irregolare che non si sia conformato ad un ordine di lasciare il territorio nazionale

Sentenza nella causa C-61/11 PPU
Hassen El Dridi alias Soufi Karim
La direttiva sul rimpatrio dei migranti irregolari osta ad una normativa nazionale che punisce con la reclusione il cittadino di un paese terzo in soggiorno irregolare che non si sia conformato ad un ordine di lasciare il territorio nazionale
Una sanzione penale quale quella prevista dalla legislazione italiana può compromettere la realizzazione dell’obiettivo di instaurare una politica efficace di allontanamento e di rimpatrio nel rispetto dei diritti fondamentali
Il sig. El Dridi, cittadino di un paese terzo, è entrato illegalmente in Italia. Nei suoi confronti è stato emanato, nel 2004, un decreto di espulsione, sul cui fondamento è stato spiccato, nel 2010, un ordine di lasciare il territorio nazionale entro cinque giorni. Quest’ultimo provvedimento era motivato dalla mancanza di documenti di identificazione, dall’indisponibilità di un mezzo di trasporto nonché dall’impossibilità - per mancanza di posti - di ospitarlo in un centro di permanenza temporanea. Non essendosi conformato a tale ordine, il sig. El Dridi è stato condannato dal Tribunale di Trento ad un anno di reclusione1.
La Corte d’appello di Trento, dinanzi alla quale egli ha impugnato detta sentenza, chiede alla Corte di giustizia se la direttiva sul rimpatrio dei cittadini di paesi terzi il cui soggiorno sia irregolare (direttiva rimpatri)2 osti ad una normativa di uno Stato membro che preveda l’irrogazione della pena della reclusione al cittadino di un paese terzo il cui soggiorno sia irregolare per la sola ragione che questi, in violazione di un ordine di lasciare entro un determinato termine il territorio nazionale, permane in detto territorio senza giustificato motivo.
La Corte ha accolto la domanda del giudice remittente di sottoporre il rinvio pregiudiziale al procedimento d’urgenza, in quanto il sig. El Dridi è in stato di detenzione.
Essa rileva, anzitutto, che la direttiva rimpatri stabilisce le norme e procedure comuni con le quali s’intende attuare un’efficace politica di allontanamento e di rimpatrio delle persone, nel rispetto dei loro diritti fondamentali e della loro dignità. Gli Stati membri non possono derogare a tali norme e procedure applicando regole più severe.
Detta direttiva definisce con precisione la procedura da applicare al rimpatrio dei cittadini di paesi terzi il cui soggiorno sia irregolare e fissa la successione delle diverse fasi di tale procedura.
La prima fase consiste nell’adozione di una decisione di rimpatrio. Nell’ambito di tale fase va accordata priorità ad una possibile partenza volontaria, per la quale all’interessato è di regola impartito un termine compreso tra sette e trenta giorni.
Nel caso in cui la partenza volontaria non sia avvenuta entro detto termine, la direttiva impone allora allo Stato membro di procedere all’allontanamento coattivo, prendendo le misure meno coercitive possibili.
Solo qualora l’allontanamento rischi di essere compromesso dal comportamento dell’interessato, lo Stato membro può procedere al suo trattenimento. Conformemente alla direttiva rimpatri3, il trattenimento deve avere durata quanto più breve possibile ed essere riesaminato ad intervalli ragionevoli; esso deve cessare appena risulti che non esiste più una prospettiva ragionevole di allontanamento e la sua durata non può oltrepassare i 18 mesi. Inoltre gli interessati devono essere collocati in un centro apposito e, in ogni caso, separati dai detenuti di diritto comune.
La direttiva comporta pertanto una gradazione delle misure da prendere per dare esecuzione alla decisione di rimpatrio nonché l’obbligo di osservare il principio di proporzionalità in tutte le fasi della procedura. Tale gradazione va dalla misura meno restrittiva per la libertà dell’interessato, ossia la concessione di un termine per la sua partenza volontaria, alla misura che maggiormente limita la sua libertà nell’ambito di un procedimento di allontanamento coattivo, vale a dire il trattenimento in un apposito centro.
La direttiva persegue dunque l’obiettivo di limitare la durata massima della privazione della libertà nell’ambito della procedura di rimpatrio e di assicurare così il rispetto dei diritti fondamentali dei cittadini dei paesi terzi in soggiorno irregolare. In proposito la Corte tiene conto, in particolare, della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.
La Corte rileva, poi, che la direttiva rimpatri non è stata trasposta nell’ordinamento giuridico italiano4 e ricorda che, in questi casi, i singoli sono legittimati ad invocare, contro lo Stato membro inadempiente, le disposizioni di una direttiva che appaiano, dal punto di vista sostanziale, incondizionate e sufficientemente precise. È il caso, nella fattispecie, degli artt. 15 e 16 della direttiva rimpatri. Al riguardo la Corte considera che la procedura di allontanamento italiana differisce notevolmente da quella stabilita da detta direttiva.
La Corte ricorda pure che, se è vero che la legislazione penale rientra in linea di principio nella competenza degli Stati membri e che la direttiva rimpatri lascia questi ultimi liberi di adottare misure anche penali nel caso in cui le misure coercitive non abbiano consentito l’allontanamento, gli Stati membri devono comunque fare in modo che la propria legislazione rispetti il diritto dell’Unione. Pertanto essi non possono applicare una normativa, sia pure di diritto penale, tale da compromettere la realizzazione degli obiettivi perseguiti da una direttiva e da privare quest’ultima del suo effetto utile.
La Corte considera dunque che gli Stati membri non possono introdurre, al fine di ovviare all’insuccesso delle misure coercitive adottate per procedere all’allontanamento coattivo, una pena detentiva, come quella prevista dalla normativa nazionale in discussione nel procedimento principale, solo perché un cittadino di un paese terzo, dopo che gli è stato notificato un ordine di lasciare il territorio nazionale e che il termine impartito con tale ordine è scaduto, permane in maniera irregolare in detto territorio. Gli Stati membri devono continuare ad adoperarsi per dare esecuzione alla decisione di rimpatrio, che continua a produrre i suoi effetti.
Una tale pena detentiva, infatti, segnatamente in ragione delle sue condizioni e modalità di applicazione, rischia di compromettere la realizzazione dell’obiettivo perseguito dalla direttiva, ossia l’instaurazione di una politica efficace di allontanamento e di rimpatrio dei cittadini di paesi terzi il cui soggiorno sia irregolare nel rispetto dei loro diritti fondamentali.
Il giudice del rinvio, incaricato di applicare le disposizioni del diritto dell’Unione e di assicurarne la piena efficacia, dovrà quindi disapplicare ogni disposizione nazionale contraria al risultato della direttiva (segnatamente, la disposizione che prevede la pena della reclusione da uno a quattro anni) e tenere conto del principio dell’applicazione retroattiva della pena più mite, il quale fa parte delle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri.
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1 Pena prevista all’art. 14, comma 5 ter, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, come modificato dalla legge 15 luglio 2009, n. 94, recante disposizioni in materia di sicurezza pubblica.
2 Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 16 dicembre 2008, 2008/115/CE, recante norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare (GU L 348, pag. 98).
3 Artt. 15 e 16.
4 Il termine per la trasposizione della direttiva negli ordinamenti giuridici nazionali era il 24 dicembre 2010.
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IMPORTANTE: Il rinvio pregiudiziale consente ai giudici degli Stati membri, nell'ambito di una controversia della quale sono investiti, di interpellare la Corte in merito all’interpretazione del diritto dell’Unione o alla validità di un atto dell’Unione. La Corte non risolve la controversia nazionale. Spetta al giudice nazionale risolvere la causa conformemente alla decisione della Corte. Tale decisione vincola egualmente gli altri giudici nazionali ai quali venga sottoposto un problema simile.