sabato 10 marzo 2012

Sentenza nelle cause riunite T-29/10 Paesi Bassi / Commissione

Sentenza nelle cause riunite T-29/10 Paesi Bassi / Commissione
e T-33/10 ING Groep NV / Commissione
Il Tribunale annulla in parte la decisione della Commissione relativa ai diversi aiuti concessi alla ING in ragione della crisi finanziaria
La Commissione non ha nella specie dimostrato che la modifica delle condizioni di rimborso di un apporto in capitali comportava un vantaggio che un investitore privato nella medesima situazione non avrebbe concesso.
La ING Groep NV (ING), con sede in Amsterdam (Paesi Bassi), fornisce servizi bancari, di assicurazione e di gestione di patrimoni a oltre 85 milioni di clienti in più di 40 paesi. Con 125 000 dipendenti e un bilancio consolidato di 1 332 miliardi di euro alla fine del 2008 è uno degli istituti finanziari più importanti del mondo.
Aiuti concessi alla ING per porre rimedio a una grave perturbazione dell’economia olandese
Nel contesto della crisi finanziaria dell’autunno del 2008, segnata dal fallimento il 15 settembre 2008 della banca Lehman Brothers, vari Stati membri hanno deciso di adottare misure per preservare la stabilità e il buon funzionamento dei mercati finanziari in seno all’Unione europea.
Nei Paesi Bassi la crisi finanziaria ha provocato vari interventi dello Stato olandese, tra cui un aiuto al gruppo Fortis, la cui partecipazione olandese, ivi compresa la banca ABN Amro, sarà poi nazionalizzata il 3 ottobre 2008, e misure di ricapitalizzazione riguardanti la Aegon e la SNS Reaal il 28 ottobre 2008 e l’11 novembre 2008.
Da parte sua la ING, un istituto considerato fondamentalmente sano per tutto il periodo di tale crisi, ha costituito oggetto di tre misure di aiuto di Stato al fine di preservare la continuità del sistema di pagamenti e del mercato interbancario dei Paesi Bassi.
Il primo aiuto consisteva in un aumento di capitale realizzato l’11 novembre 2008 sotto la forma di emissione di titoli ibridi, che non conferivano diritto né al voto né al dividendo, interamente sottoscritto dallo Stato olandese. Tale operazione ha consentito alla ING di rafforzare il suo capitale di base di livello 1 di 10 miliardi di euro, facendolo passare da 6,5% a 8% dopo l’aumento di capitale.
Sulla base delle condizioni di rimborso inizialmente convenute, i titoli dovevano, su iniziativa dell’ING, o essere riscattati a 15 euro a titolo (il che rappresentava un premio di rimborso del 50% rispetto al prezzo di emissione di 10 euro) o, entro 3 anni, essere convertiti in azioni ordinarie, in ragione di uno ad uno. Se la ING avesse optato per l’opzione della conversione, lo Stato olandese avrebbe tuttavia avuto la facoltà di ottenere dalla ING il riscatto dei titoli al prezzo unitario di 10 euro maggiorato degli interessi maturati. Una cedola sui titoli sarebbe stata pagata allo Stato, solo se per le azioni ordinarie della ING fosse stato messo in pagamento un dividendo.
Tali condizioni iniziali sono state successivamente modificate per una parte dell’apporto in capitali. Le nuove condizioni, che sono state comunicate dallo Stato olandese alla Commissione, consentivano alla ING di riscattare la metà dei titoli al prezzo di emissione di 10 euro a titolo, maggiorato degli interessi maturati con riferimento alla cedola annuale dell’8,5% e di un premio di rimborso anticipato qualora la quotazione dell’azione ING fosse superiore a 10 euro. Tale operazione assicurava allo Stato olandese un tasso di rendimento interno minimo del 15%.
Il secondo aiuto consisteva in uno scambio di flusso di tesoreria vertente su attivi svalutati di un portafoglio titoli garantiti da crediti ipotecari immobiliari concessi negli Stati Uniti il cui valore era considerevolmente sceso, mentre il terzo aiuto consisteva in garanzie concesse dallo Stato olandese su debiti assunti dalla ING per oltre 12 miliardi di euro.
Esame della Commissione
A conclusione di vari procedimenti amministrativi, la Commissione si è pronunciata, con decisione del 18 novembre 2009, sulla compatibilità degli aiuti sopramenzionati con il mercato interno.
In questa decisione, la Commissione ha qualificato l’aumento di capitale della ING sottoscritto dallo Stato olandese come aiuto e ha considerato che esso in particolare, comportava un «aiuto aggiuntivo dell’ordine di 2 miliardi di euro» a seguito della modifica delle condizioni di rimborso di tale aiuto.
A conclusione della sua analisi, la Commissione ha considerato, al primo comma dell’articolo 2 della detta decisione, che «[l]’aiuto alla ristrutturazione concesso dai Paesi Bassi a vantaggio di ING costituisce un aiuto di Stato ai sensi dell’articolo 87, paragrafo 1, [CE]» e, al secondo comma, che tale «aiuto è compatibile con il mercato comune, tenuto conto degli impegni precisati nell’allegato II».
I Paesi Bassi e la ING, sostenuta quest’ultima dalla DNB, la banca centrale dei Paesi Bassi, hanno impugnato la decisione del 18 novembre 2009 dinanzi al Tribunale, in particolare, in quanto la Commissione ha ritenuto che le misure di aiuto comportassero un aiuto aggiuntivo di 2 miliardi di euro.
Giudizio del Tribunale
Secondo il Tribunale, la Commissione non poteva limitarsi a constatare che la modifica delle condizioni di rimborso dell’apporto in capitale costituiva ipso facto un aiuto di Stato senza esaminare previamente se tale modifica conferiva alla ING un vantaggio che un investitore privato che si trovasse nella medesima situazione dello Stato olandese non avrebbe concesso. Tale esame presupponeva, in particolare, la comparazione delle condizioni di rimborso iniziali con quelle modificate.
Il Tribunale constata che dalla decisione del 18 novembre 2009 non risulta che la Commissione abbia effettuato una siffatta comparazione. La Commissione si è infatti limitata ad indicare che la modifica delle condizioni di rimborso comportava un mancato guadagno per lo Stato olandese senza tener conto del fatto che le condizioni iniziali non prevedevano un obbligo, ma unicamente la facoltà per la ING di riscattare i titoli sottoscritti dallo Stato olandese entro il termine di tre anni a tal fine previsto. Inoltre, nel novembre 2008, la Commissione aveva considerato che «per riflesso del mercato in crisi», il rendimento atteso dal mercato per titoli del tipo di quelli emessi in occasione dell’apporto di capitali era del «15% o oltre». Tale rendimento era considerato dalla Commissione troppo alto ed essa si appagava in questa fase di un rendimento di «più del 10%». Da ciò consegue che la Commissione ha considerato che gli investitori privati potevano essere interessati a siffatti titoli. Il Tribunale ritiene pertanto che non era da escludere che detti investitori potessero essere ancora interessati ad un siffatto rendimento nel novembre 2009, in un momento in cui la crisi finanziaria era meno acuta e in cui è consentito ritenere che il rendimento atteso dal mercato avrebbe potuto essere meno elevato.
In questo contesto la Commissione non ha esaminato sotto quale aspetto il rendimento compreso tra il 15% e il 22% concesso allo Stato olandese a seguito della modifica delle condizioni di rimborso non corrispondesse a quanto avrebbe potuto ragionevolmente attendersi un investitore privato di fronte ad un’analoga situazione, cioè un titolare di titoli del tipo di quelli emessi in occasione dell’apporto in capitali, rimborsabili dall’emittente. Il Tribunale ritiene che la Commissione non potesse adottare la sua decisione senza tener conto di siffatti elementi e senza esaminarne l’incidenza sulla sua valutazione circa l’esistenza di un aiuto.
Il Tribunale annulla pertanto la decisione della Commissione nella misura in cui riposa sulla constatazione secondo cui la modifica delle condizioni di rimborso dell’apporto in capitali costituisce un aiuto aggiuntivo dell’ordine di 2 miliardi di euro e in cui essa valuta, di conseguenza, la compatibilità dell’aiuto con il mercato interno, e in particolare, l’importanza delle misure compensative, in considerazione di un siffatto aiuto.
Alla luce di tale conclusione, per il Tribunale non è necessario esaminare gli argomenti presentati dalla ING e dalla Commissione per quanto riguarda gli impegni indicati dall’allegato II della decisione del 18 novembre 2009, dato che tali impegni presuppongono che l’aiuto alla ristrutturazione contemplato dall’articolo 2 della detta decisione sia stato correttamente qualificato, circostanza che non ricorre nel caso di specie.

Sentenza nella causa C-467/10 - Il diniego, da parte di uno Stato membro, del rilascio di una patente di guida non può giustificare il mancato riconoscimento della patente ottenuta successivamente in un altro Stato membro

Sentenza nella causa C-467/10
Baris Akyüz
Il diniego, da parte di uno Stato membro, del rilascio di una patente di guida non può giustificare il mancato riconoscimento della patente ottenuta successivamente in un altro Stato membro
Uno Stato membro può tuttavia negare il riconoscimento della patente qualora risulti provato, in base a informazioni incontestabili, provenienti dallo Stato membro del rilascio, che il titolare non era in possesso del requisito di residenza normale
Il sig. Akyüz è stato più volte oggetto di condanne penali in Germania nel periodo compreso tra il 2004 ed il 2008, segnatamente per lesioni personali, guida senza patente, concorso in estorsione aggravata in banda organizzata nonché per minacce e ingiurie. Sulla base di una perizia medico-psicologica, le autorità tedesche respingevano, con decisione del 10 settembre 2008, la sua domanda di rilascio di una patente di guida di classe B (autovetture), in base al rilievo che questi non era in possesso dei requisiti di idoneità psico-fisica per poter guidare nel rispetto dei criteri di sicurezza.
Il sig. Akyüz otteneva, tuttavia, una patente di guida a Dĕčin (Repubblica ceca) il 24 novembre 2008. Ai sensi della normativa europea, la patente di guida è rilasciata da uno Stato membro al richiedente che ha la propria residenza normale nel territorio di tale Stato. Orbene, secondo le informazioni fornite dall’ambasciata tedesca a Praga, né il competente ufficio stranieri né la polizia regionale sono in grado di accertare se il sig. Akyüz soggiornasse effettivamente nella Repubblica ceca a tale data. I servizi di tale ambasciata dispongono infatti soltanto di una registrazione per il periodo dal 1° giugno al 1° dicembre 2009. Orbene, a quanto risulta dalla fotocopia della patente di guida, che sarebbe stata rilasciata a Dĕčin l’8 giugno 2009, il primo rilascio della stessa risale al 24 novembre 2008. Le autorità tedesche accertavano inoltre che il sig. Akyüz si trovava alla guida di veicoli in Germania il 5 dicembre 2008 e il 1° marzo 2009 riconoscendolo, in entrambi i casi, colpevole di guida senza patente.
Il Landgericht Gießen (Tribunale regionale di Gießen, Germania), adito in appello, chiede sostanzialmente alla Corte di giustizia se, in circostanze come quelle del caso di specie, le autorità tedesche possono non riconoscere la patente di guida rilasciata nella Repubblica ceca, per il fatto che all’interessato è stato negato il rilascio di una prima patente di guida in Germania o ancora per il fatto che questi non era in possesso dei requisiti di residenza nella Repubblica ceca al momento del rilascio della patente.
La Corte precisa anzitutto che il diritto dell’Unione 1 prevede il reciproco riconoscimento, senza alcuna formalità, delle patenti di guida rilasciate dagli Stati membri. Spetta allo Stato membro del rilascio verificare se tutti i requisiti – in particolare quelli relativi alla residenza e all’idoneità alla guida – sono soddisfatti e se il rilascio di una patente di guida è giustificato. Quando le autorità di uno Stato membro hanno quindi rilasciato una patente di guida, gli altri Stati membri non sono legittimati a verificare il rispetto delle condizioni di rilascio fissate dal diritto dell’Unione. Infatti, il possesso di una patente di guida rilasciata da uno Stato membro deve essere considerato quale prova del fatto che il titolare di tale patente soddisfaceva, alla data del suo rilascio, i necessari requisiti.
Il diritto dell’Unione consente tuttavia agli Stati membri, in talune circostanze e, in particolare, per ragioni di sicurezza della circolazione stradale, di applicare le proprie disposizioni nazionali concernenti la restrizione, la sospensione, la revoca o l’annullamento della patente di guida a tutti i titolari di patente aventi la normale residenza sul proprio territorio.
La Corte ricorda che la facoltà per uno Stato membro di negare, per uno dei motivi suddetti, il riconoscimento della validità di una patente di guida ottenuta in un altro Stato membro costituisce una deroga al principio generale del reciproco riconoscimento delle patenti e va dunque interpretata restrittivamente.
Nel caso di specie, la Corte rileva che il diniego del rilascio di una prima patente di guida da parte di uno Stato membro non figura tra le ipotesi che possono comportare il mancato riconoscimento, da parte di tale Stato, di una patente di guida rilasciata da un altro Stato membro. Se è pur vero che il diniego del rilascio di una prima patente di guida può essere in parte basato sulla condotta del richiedente, tale diniego (pronunciato in esito ad un procedimento amministrativo) non può costituire – a differenza della restrizione, sospensione, revoca o annullamento – la sanzione per un’infrazione commessa dal richiedente medesimo.
La Corte ritiene inoltre che consentire ad uno Stato membro di non riconoscere una patente di guida rilasciata in un altro Stato membro, per il fatto che quest’ultimo non ha verificato se i motivi alla base del diniego del rilascio siano venuti meno, farebbe sì che lo Stato membro che ha stabilito le condizioni più severe per il rilascio di una patente di guida possa stabilire il livello minimo dei requisiti che gli altri Stati membri devono rispettare affinché le patenti di guida da essi rilasciate possano essere riconosciute. Ammettere che uno Stato membro possa richiamarsi alle proprie disposizioni di diritto interno per opporsi indefinitamente al riconoscimento di una patente rilasciata in un altro Stato membro equivarrebbe alla negazione stessa del principio del reciproco riconoscimento delle patenti di guida.
La Corte conclude che il diritto dell’Unione osta alla normativa di uno Stato membro ospitante secondo la quale il riconoscimento di una patente di guida rilasciata in un altro Stato membro è negato qualora al titolare sia stato rifiutato, da parte dello Stato ospitante medesimo, il rilascio della patente per mancato possesso dei requisiti di idoneità psico-fisica richiesti dalla propria normativa nazionale.
Per quanto riguarda il requisito di residenza, la Corte ritiene che il diritto dell’Unione non osti alla normativa di uno Stato membro ospitante che consenta a quest’ultimo di negare il riconoscimento, sul proprio territorio, di una patente di guida rilasciata in un altro Stato membro, nel caso in cui risulti provato – in base a informazioni incontestabili, provenienti dallo Stato membro del rilascio – che il titolare della patente di guida non soddisfaceva il requisito di residenza.
La Corte precisa che spetta al giudice del rinvio verificare se le informazioni ottenute in circostanze come quelle del caso di specie possano essere qualificate come informazioni provenienti dallo Stato membro del rilascio. Se del caso, spetta parimenti al giudice nazionale vagliare dette informazioni e valutare, tenendo conto di tutte le circostanze della controversia sottoposta al suo esame, se esse costituiscano informazioni incontestabili attestanti che il titolare della patente non aveva la residenza normale nel territorio di quest’ultimo Stato al momento del rilascio della sua patente di guida.
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1 Direttiva 91/439/CEE del Consiglio, del 29 luglio 1991, concernente la patente di guida (GU L 237, pag. 1) la cui rifusione è stata effettuata dalla direttiva 2006/126/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 dicembre 2006, concernente la patente di guida (GU L 403, pag. 18).

Sentenza nella causa C-134/11 - La tutela dei viaggiatori contro il rischio di insolvenza dell’organizzatore del viaggio «tutto compreso» si applica anche nel caso in cui l’insolvenza sia dovuta alla condotta fraudolenta di quest’ultimo

Sentenza nella causa C-134/11
Jürgen Blödel-Pawlik / HanseMerkur Reiseversicherung AG
La tutela dei viaggiatori contro il rischio di insolvenza dell’organizzatore del viaggio «tutto compreso» si applica anche nel caso in cui l’insolvenza sia dovuta alla condotta fraudolenta di quest’ultimo
L’obbligo, per l’organizzatore del viaggio, di disporre di garanzie sufficienti per assicurare, in caso di insolvenza, il rimborso del prezzo del viaggio e il rimpatrio del viaggiatore si applica a prescindere dalle cause dell’insolvenza
La direttiva sui viaggi «tutto compreso» 1 mira, fra l’altro, a garantire che, in caso di insolvenza o di fallimento dell’organizzatore del viaggio, il viaggiatore sia rimpatriato e rimborsato delle spese che ha già pagato. A tal fine, essa obbliga l’organizzatore del viaggio a dare prove sufficienti di disporre di garanzie per assicurare, in una simile evenienza, il rimpatrio ed il rimborso suddetti. In tal senso, il codice civile tedesco (Bürgerliches Gesetzbuch) dispone che l’organizzatore del viaggio deve garantire che al viaggiatore venga rifuso il prezzo pagato per il viaggio, se le prestazioni di viaggio non vengono fornite a causa dell’insolvenza di detto organizzatore.
Il Landgericht Hamburg (Tribunale regionale di Amburgo, Germania) chiede alla Corte di giustizia se tale tutela dei viaggiatori si applichi anche qualora l’insolvenza sia dovuta alla condotta fraudolenta dell’organizzatore del viaggio. Tale giudice deve statuire in merito al ricorso proposto dal sig. Blödel-Plawlik nei confronti della compagnia assicurativa tedesca HanseMerkur Reiseversicherung AG a seguito del rifiuto, da parte della stessa, di rimborsargli il prezzo del suo viaggio «tutto compreso», al quale non è stata data esecuzione a causa dell’insolvenza dell’organizzatore del viaggio, Rhein Reisen GmbH. Quest’ultimo – che, ad avviso del Landgericht, in realtà non ha mai pianificato l’effettuazione del viaggio che il sig. Blödel-Pawlik aveva prenotato per sé e per sua moglie – è divenuto insolvente perché ha distratto le somme incassate dai viaggiatori. Esso aveva stipulato un’assicurazione contro la sua insolvenza presso la compagnia assicurativa HanseMerkur ed aveva presentato al sig. Blödel-Pawlik due buoni di garanzia nei quali era previsto che il prezzo del viaggio gli sarebbe stato rimborsato in caso di mancata effettuazione del viaggio dovuta ad insolvenza dell’organizzatore. Orbene, la compagnia assicurativa ritiene che la direttiva non sia volta a tutelare il viaggiatore dalle operazioni fraudolente compiute dall’organizzatore del viaggio «tutto compreso».
Nella sua odierna sentenza, la Corte chiarisce che la tutela conferita ai viaggiatori dalla direttiva in caso di insolvenza dell’organizzatore del viaggio «tutto compreso» si applica anche qualora tale insolvenza sia dovuta alla condotta fraudolenta di quest’ultimo. La direttiva, infatti, è volta per l’appunto a tutelare il consumatore contro le conseguenze dell’insolvenza, indipendentemente dalle sue cause. Pertanto, il fatto che l’insolvenza dell’organizzatore del viaggio sia dovuta alla condotta fraudolenta del medesimo non può costituire un ostacolo al rimborso dei fondi versati per il viaggio e al rimpatrio del viaggiatore.
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1 Direttiva 90/314/CEE del Consiglio, del 13 giugno 1990, concernente i viaggi, le vacanze ed i circuiti «tutto compreso» (GU L 158, pag. 1).

venerdì 9 marzo 2012

Sentenza nelle cause riunite C-72/10 Il diritto dell’Unione osta ad una normativa nazionale sui giochi d’azzardo che imponga una distanza minima da rispettare tra i punti di vendita delle scommesse, qualora essa miri a proteggere le posizioni commerciali degli operatori esistenti

Sentenza nelle cause riunite C-72/10 Marcello Costa e
C-77/10 Ugo Cifone
La Corte di giustizia esamina le misure adottate dall’Italia per rimediare all’esclusione di alcuni operatori di giochi d’azzardo, dichiarata illegittima dalla Corte nel 2007
La normativa italiana in vigore stabilisce che l’esercizio delle attività di raccolta e di gestione delle scommesse presuppone l’ottenimento di una concessione previa pubblica gara, nonché di un’autorizzazione di polizia. Qualsiasi violazione di tale normativa è passibile di sanzioni penali.
Nel 1999 le autorità italiane hanno assegnato, a seguito di pubbliche gare, un numero rilevante di concessioni per le scommesse sulle competizioni sportive e ippiche. Le gare escludevano in particolare gli operatori costituiti in forma di società per azioni quotate nei mercati regolamentati. Nel 2007 una sentenza della Corte di giustizia 1 ha dichiarato l’illegittimità di tale esclusione.
A partire dal 2006, l’Italia ha proceduto ad una riforma del settore del gioco 2, destinata ad assicurarne l’adeguamento alle regole imposte dal diritto dell’Unione. In particolare, l’Italia ha messo a concorso un numero rilevante di nuove concessioni, stabilendo, tra l’altro, che i nuovi punti di vendita delle scommesse dovevano rispettare una distanza minima rispetto a quelli che avevano ottenuto una concessione a seguito della gara del 1999.
I sigg. Costa e Cifone, gestori di Centri di Trasmissione di Dati (CTD) legati alla società inglese Stanley International Betting Ltd, sono stati accusati del reato di esercizio abusivo delle attività di scommessa, per aver effettuato la raccolta di scommesse senza rispettare le prescrizioni della normativa italiana. Infatti, la Stanley opera in Italia esclusivamente tramite più di duecento agenzie, aventi veste di CTD. La società era stata illegittimamente esclusa dalla gara del 1999 e aveva deciso di non partecipare alla gara del 2006 a motivo dell’assenza di risposte soddisfacenti da parte delle autorità italiane alle sue richieste di chiarimenti sulla nuova normativa.
La Corte suprema di cassazione italiana, investita di tali procedimenti, ha ritenuto che sussistessero dubbi riguardo alla compatibilità della disciplina nazionale con la libertà di stabilimento e la libera prestazione dei servizi garantite dal diritto dell’Unione. Infatti, la disciplina nazionale presenta caratteristiche che a detto giudice apparivano discriminatorie. In tale contesto, il giudice italiano ha deciso di sottoporre alla Corte di giustizia una serie di questioni.
In primo luogo, la Corte esamina la norma nazionale secondo cui i nuovi concessionari devono insediarsi ad una distanza minima da quelli già esistenti. La Corte ritiene che tale misura abbia l'effetto di proteggere le posizioni commerciali acquisite dagli operatori già insediati a discapito dei nuovi concessionari, i quali sono costretti a stabilirsi in luoghi meno interessanti dal punto di vista commerciale rispetto a quelli occupati dai primi. Una misura siffatta implica dunque una discriminazione nei confronti degli operatori esclusi dalla gara del 1999.
In base al diritto dell’Unione, una simile disparità di trattamento potrebbe essere giustificata da motivi imperativi di interesse generale. Il governo italiano ne faceva valere due. Da un lato, lo scopo sarebbe di evitare che i consumatori che vivono nei pressi degli esercizi di raccolta delle scommesse siano esposti ad un eccesso di offerta. La Corte respinge tale argomento, in quanto il settore dei giochi d’azzardo in Italia è stato per lungo tempo caratterizzato da una politica di espansione finalizzata ad aumentare gli introiti fiscali. Dall’altro lato, l’Italia asseriva che l’obiettivo della normativa sarebbe quello di prevenire il rischio che i consumatori residenti in luoghi meno coperti dall’offerta di tali servizi optino per i giochi clandestini. A questo proposito, la Corte fa osservare che i mezzi impiegati per la realizzazione dell’obiettivo invocato devono essere coerenti e sistematici. Nel caso di specie, invece, le norme sulle distanze minime, che sono state imposte non ai concessionari già stabiliti sul mercato bensì ai nuovi concessionari, comporterebbero svantaggi soltanto per questi ultimi.
Ad ogni modo, un regime nazionale che imponga una distanza minima da rispettare tra i punti di vendita potrebbe essere giustificato soltanto qualora il suo reale obiettivo non fosse quello di proteggere le posizioni commerciali degli operatori esistenti, ciò che spetta al giudice nazionale verificare. Inoltre, spetta al giudice italiano verificare altresì che l’obbligo di rispettare determinate distanze minime, il quale impedisce l’insediamento di punti di vendita supplementari in zone fortemente frequentate dal pubblico, sia idoneo a realizzare l’obiettivo invocato e indurrà i nuovi operatori a stabilirsi in luoghi poco frequentati, assicurando così una copertura a livello nazionale.
In secondo luogo, la Corte esamina la normativa italiana che prevede la decadenza della concessione (e delle garanzie pecuniarie prestate per ottenerla) qualora il titolare della concessione stessa, ovvero l’amministratore di detto titolare, abbia proposto giochi non autorizzati incorrendo in un reato «suscettibile di far venir meno il rapporto fiduciario con l’Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato».
La Corte dichiara che i principi di libertà di stabilimento e di libera prestazione dei servizi ostano a che vengano applicate sanzioni a persone (come i sigg. Costa e Cifone), legate ad un operatore (come la Stanley), qualora quest’ultimo fosse stato escluso da una gara in violazione del diritto dell’Unione. Tale constatazione resta valida anche per la nuova gara indetta al fine di rimediare a tale esclusione illegittima dell’operatore, qualora la gara suddetta non sia stata in grado di raggiungere questo obiettivo, ciò che spetterà al giudice nazionale verificare.
Inoltre, la Corte dichiara che le condizioni e le modalità di una gara, e in particolare le norme contemplanti la decadenza di concessioni rilasciate, devono essere formulate in modo chiaro, preciso e univoco, ciò che invece non avviene nel caso di specie. Nondimeno, spetta in via di principio al giudice nazionale verificare tali elementi.
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1 Più precisamente, la sentenza della Corte del 6 marzo 2007, Placanica e a., C-338/04, C-359/04 e C-360/04; v. anche comunicato stampa n. 20/2007.
2 Tra i provvedimenti adottati, il decreto legge 4 luglio 2006, n. 223, recante disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale, convertito dalla legge 4 agosto 2006, n. 248 (noto come «decreto Bersani»).

Sentenza nella causa C-360/10 - Il gestore di una rete sociale in linea non può essere costretto a predisporre un sistema di filtraggio generale, riguardante tutti i suoi utenti, per prevenire l’utilizzo illecito di opere musicali e audiovisive

Sentenza nella causa C-360/10
Belgische Vereniging van Auteurs, Componisten en Uitgevers (SABAM) / Netlog NV
Il gestore di una rete sociale in linea non può essere costretto a predisporre un sistema di filtraggio generale, riguardante tutti i suoi utenti, per prevenire l’utilizzo illecito di opere musicali e audiovisive
Un simile obbligo non rispetterebbe il divieto di imporre a detto gestore un obbligo generale di sorveglianza, né l’esigenza di garantire il giusto equilibrio tra la tutela del diritto d’autore, da un lato, e la libertà d’impresa, il diritto alla protezione dei dati personali e la libertà di ricevere o comunicare informazioni, dall’altro
La SABAM è una società belga di gestione dei diritti degli autori, compositori ed editori di opere musicali. A tale titolo, essa ha il compito di autorizzare l’utilizzo delle loro opere protette da parte di terzi. La SABAM si oppone alla Netlog NV, che gestisce una piattaforma di rete sociale in linea sulla quale ogni utente iscritto riceve uno spazio personale, denominato «profilo», che egli stesso può riempire, sapendo che detto profilo è accessibile a livello mondiale. La funzione principale di tale piattaforma, quotidianamente utilizzata da decine di milioni di persone, è quella di creare comunità virtuali che consentono agli utenti di comunicare tra loro e, in tal modo, di stringere amicizie. Sul proprio profilo gli utenti possono, in particolare, tenere un diario, indicare i propri passatempi e preferenze, mostrare i propri amici, visualizzare foto personali o pubblicare estratti di video.
Secondo la SABAM, la rete sociale della Netlog consente altresì agli utenti di utilizzare, tramite il loro profilo, opere musicali ed audiovisive del repertorio della SABAM, mettendo dette opere a disposizione del pubblico in maniera tale che altri utenti della rete possano avervi accesso, e questo senza l’autorizzazione della SABAM e senza che la Netlog versi un compenso a tale titolo.
Il 23 giugno 2009 la SABAM ha fatto notificare alla Netlog un atto di citazione dinanzi al presidente del Tribunale di primo grado di Bruxelles (Belgio), chiedendo, in particolare, che venga ordinato alla Netlog di cessare immediatamente qualsiasi messa a disposizione illecita delle opere musicali o audiovisive del repertorio della SABAM, a pena di una sanzione pecuniaria di 1 000 euro per ogni giorno di ritardo. La Netlog ha sostenuto che se venisse accolta l’azione della SABAM ciò equivarrebbe ad imporre alla Netlog un obbligo generale di sorveglianza, vietato dalla direttiva sul commercio elettronico 1.
In tale contesto, il Tribunale belga si è rivolto alla Corte di giustizia, chiedendo, in sostanza, se il diritto dell’Unione osti all’ingiunzione rivolta da un giudice nazionale ad un prestatore di servizi di hosting (quale un gestore di una rete sociale in linea) di predisporre un sistema di filtraggio delle informazioni memorizzate sui suoi server dai suoi utenti, che si applichi indistintamente nei confronti di tutti questi utenti, a titolo preventivo, a sue spese esclusive e senza limiti nel tempo.
Secondo la Corte, è pacifico che la Netlog memorizza sui propri server informazioni fornite dagli utenti di tale piattaforma e relative al loro profilo e che, pertanto, essa è un prestatore di servizi di hosting ai sensi del diritto dell’Unione.
È altresì pacifico che la predisposizione di tale sistema di filtraggio presupporrebbe che il prestatore di servizi di hosting, da un lato, identifichi, all’interno dell’insieme dei file memorizzati sui suoi server da tutti gli utenti, quelli che possono contenere opere su cui i titolari di diritti di proprietà intellettuale affermano di vantare diritti. Dall’altro, il prestatore di servizi di hosting dovrebbe, successivamente, determinare quali dei suddetti file siano memorizzati e messi a disposizione del pubblico in maniera illecita e, infine, bloccare la messa a disposizione dei file che ha considerato illeciti.
Una siffatta sorveglianza preventiva richiederebbe, quindi, un’osservazione attiva dei file memorizzati dagli utenti presso il gestore della rete sociale. Di conseguenza, il sistema di filtraggio imporrebbe a quest’ultimo una sorveglianza generalizzata delle informazioni memorizzate presso il medesimo, vietata dalla direttiva sul commercio elettronico.
La Corte rammenta, poi, che è compito delle autorità e dei giudici nazionali, nel contesto delle misure adottate per proteggere i titolari di diritti d’autore, garantire un giusto equilibrio tra la tutela del diritto d’autore dei titolari e quella dei diritti fondamentali delle persone su cui incidono dette misure 2.
Nel caso di specie, l’ingiunzione di predisporre un sistema di filtraggio implicherebbe una sorveglianza, nell’interesse dei titolari di diritti d’autore, sulla totalità o sulla maggior parte delle informazioni memorizzate presso il prestatore di servizi di hosting coinvolto. Tale sorveglianza dovrebbe inoltre essere illimitata nel tempo e riguardare qualsiasi futura violazione e postulerebbe l’obbligo di tutelare non solo opere esistenti, bensì anche opere che non sono state ancora create nel momento in cui viene predisposto detto sistema. Un’ingiunzione di questo genere causerebbe, quindi, una grave violazione della libertà di impresa della Netlog, poiché l’obbligherebbe a predisporre un sistema informatico complesso, costoso, permanente e unicamente a sue spese.
Inoltre, gli effetti dell’ingiunzione non si limiterebbero alla Netlog, poiché il sistema di filtraggio controverso è idoneo a ledere anche i diritti fondamentali dei suoi utenti, ossia il loro diritto alla tutela dei dati personali e la loro libertà di ricevere o di comunicare informazioni, diritti, questi ultimi, tutelati dagli articoli 8 e 11 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Infatti, l’ingiunzione implicherebbe, da un lato, l’identificazione, l’analisi sistematica e l’elaborazione delle informazioni relative ai profili creati sulla rete sociale, informazioni, queste, che costituiscono dati personali protetti, in quanto consentono, in linea di principio, di identificare gli utenti. Dall’altro, l’ingiunzione rischierebbe di ledere la libertà di informazione, poiché tale sistema potrebbe non essere in grado di distinguere adeguatamente tra un contenuto illecito ed un contenuto lecito, sicché il suo impiego potrebbe produrre il risultato di bloccare comunicazioni aventi un contenuto lecito.
Di conseguenza, la Corte risponde che il giudice nazionale, adottando un’ingiunzione che costringa il prestatore di servizi di hosting a predisporre un simile sistema di filtraggio, non rispetterebbe l’obbligo di garantire un giusto equilibrio tra il diritto di proprietà intellettuale, da un lato, e la libertà di impresa, il diritto alla tutela dei dati personali e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni, dall’altro.
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1 Direttiva 2000/31/CE, del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’8 giugno 2000, relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell’informazione, in particolare il commercio elettronico, nel mercato interno (GU L 178, pag. 1), articolo 15.

Sentenza nella causa C-204/09 - L’accesso del pubblico alle informazioni ambientali può essere negato da un ministero purché esse rientrino in un procedimento legislativo cui tale ministero partecipa

Sentenza nella causa C-204/09
Flachglas Torgau GmbH / Germania
L’accesso del pubblico alle informazioni ambientali può essere negato da un ministero purché esse rientrino in un procedimento legislativo cui tale ministero partecipa
Tuttavia, tale eccezione non si applica più una volta conclusosi il procedimento legislativo
La direttiva 2003/41, che attua la convenzione di Aahrus 2 nel diritto dell’Unione, mira a garantire ai cittadini e alle imprese − senza che siano tenuti a far valere un interesse − un diritto di accesso alle informazioni ambientali detenute dalle autorità pubbliche. Tuttavia, la direttiva concede agli Stati membri la facoltà di escludere tale diritto nei confronti degli «organismi o (...) istituzioni che agiscono nell’esercizio di competenze (...) legislative». Peraltro, la direttiva consente agli Stati membri di prevedere la possibilità di rigetto di una richiesta di informazioni ambientali in taluni casi, segnatamente quando la divulgazione di tali informazioni arrecherebbe pregiudizio alla riservatezza delle deliberazioni delle autorità pubbliche, a condizione che tale riservatezza sia prevista dal diritto. La direttiva è stata trasposta nel diritto tedesco dalla legge sull’informazione ambientale (Umweltinformationsgesetz).
Nella fattispecie, la Flachglas Torgau GmbH è un produttore tedesco di vetro che partecipa allo scambio di quote di emissione di gas a effetto serra. Essa desidera ottenere informazioni sulle condizioni in cui l’Umweltbundesamt (Agenzia federale per l’ambiente), autorità responsabile per tale scambio in Germania, ha adottato alcune decisioni di assegnazione delle suddette quote nel periodo 2005 - 2007. A tale scopo, la Flachglas Torgau ha chiesto al Bundesministerium für Umwelt, Naturschutz und Reaktorsicherheit (ministero federale per l’ambiente, per la protezione della natura e per la sicurezza nucleare, Germania) di trasmetterle informazioni relative sia al procedimento legislativo nell’ambito del quale è stata adottata la legge sul piano di assegnazione delle quote di emissione di gas a effetto serra per il periodo di assegnazione 2005 2007, sia all’attuazione di detta legge. Il produttore ha chiesto in particolare l’accesso ad alcune note e pareri interni di tale ministero nonché ad elementi della corrispondenza, inclusa quella elettronica, scambiata dal medesimo con l’Agenzia federale per l’ambiente.
Il ministero non ha accolto la richiesta. Ha ritenuto, da una parte, di essere esentato dall’obbligo di comunicare le informazioni relative al procedimento legislativo a causa della sua partecipazione a tale procedimento, e, dall’altra, che le informazioni relative all’attuazione della legge del 2007 fossero coperte dalla riservatezza delle deliberazioni delle autorità pubbliche. Il Bundesverwaltungsgericht (Corte federale amministrativa, Germania), che deve pronunciarsi sulla controversia in ultima istanza, ha chiesto alla Corte di giustizia di precisare i limiti che gli Stati membri possono porre al diritto di accesso del pubblico alle informazioni ambientali.
Secondo la Corte, gli Stati membri possono prevedere che i ministeri neghino l’accesso del pubblico alle informazioni ambientali, purché questi ultimi partecipino al procedimento legislativo, segnatamente mediante la presentazione di progetti di legge o di pareri. Infatti, in un caso del genere, gli Stati membri possono fare uso della facoltà di escludere il diritto di accesso nei confronti degli «organismi o (...) istituzioni che agiscono nell’esercizio di competenze (...) legislative». Tale facoltà consente agli Stati membri di stabilire le regole idonee ad assicurare il corretto svolgimento del procedimento di adozione delle leggi tenendo conto del fatto che, nei diversi Stati membri, l’informazione dei cittadini è, di regola, sufficientemente assicurata nell’ambito del procedimento legislativo.
Tuttavia, una volta concluso il procedimento legislativo (mediante la promulgazione della legge), il ministero che vi ha partecipato non può più avvalersi di tale eccezione, poiché il corretto svolgimento di tale procedimento non può più, in linea di principio, essere ostacolato dalla messa a disposizione delle informazioni ambientali. Del resto, i documenti relativi a tale procedimento e, in particolare, le relazioni parlamentari sono generalmente accessibili al pubblico.
Al contrario, non è escluso che il ministero possa negare la trasmissione di tali informazioni per altri motivi riconosciuti dal diritto dell’Unione.
In tal senso, gli Stati membri possono prevedere che la richiesta di informazioni ambientali sia respinta, qualora la loro divulgazione rechi pregiudizio alla riservatezza delle deliberazioni delle autorità pubbliche, sempreché la riservatezza sia «prevista dal diritto». A tal riguardo, la Corte rileva che il legislatore dell’Unione ha chiaramente voluto che nel diritto nazionale esista una regola esplicita. Anche se non è necessario che tutte le condizioni di tale motivo di diniego siano determinate in dettaglio, deve essere escluso che le autorità pubbliche possano determinare unilateralmente le circostanze in cui può essere opposta la riservatezza. Ciò implica segnatamente che il diritto nazionale stabilisca chiaramente la portata della nozione di «deliberazioni» delle autorità pubbliche, che rinvia alle fasi finali del processo decisionale delle autorità pubbliche.
La Corte conclude che la condizione prevista dalla direttiva, secondo cui la riservatezza delle deliberazioni delle autorità pubbliche deve essere «prevista dal diritto», può essere considerata soddisfatta allorché esiste, nel diritto nazionale dello Stato membro interessato, una norma che dispone, in modo generale, che la riservatezza delle deliberazioni delle autorità pubbliche costituisce un motivo di diniego di accesso a informazioni ambientali detenute da tali autorità, purché il diritto nazionale determini chiaramente la nozione di deliberazione.
Peraltro, la Corte ricorda che un’autorità pubblica che intenda avvalersi della riservatezza delle proprie deliberazioni al fine di respingere una richiesta di accesso alle informazioni ambientali deve procedere per ciascun caso particolare ad una ponderazione degli interessi contrapposti.
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1 Direttiva 2003/4/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 28 gennaio 2003, sull’accesso del pubblico all’informazione ambientale e che abroga la direttiva 90/313/CEE del Consiglio (GU L 41, pag. 26).
2 Convenzione sull’accesso alle informazioni, la partecipazione del pubblico ai processi decisionali e l’accesso alla giustizia in materia ambientale, sottoscritta il 25 giugno 1998 e approvata a nome della Comunità europea con decisione 2005/370/CE del Consiglio, del 17 febbraio 2005 (GU L 124, pag. 1).

Sentenza nella causa C-17/10 L’autorità ceca garante della concorrenza può sanzionare gli effetti di un’intesa mondiale prodotti nella Repubblica ceca prima della sua adesione all’UE

Sentenza nella causa C-17/10
Toshiba Corporation e a. / Úřad pro ochranu hospodářské soutěže
L’autorità ceca garante della concorrenza può sanzionare gli effetti di un’intesa mondiale prodotti nella Repubblica ceca prima della sua adesione all’UE
La Commissione non è competente a sanzionare gli effetti di tale intesa, anche se questa è cessata soltanto dopo l’adesione
La presente causa riguarda un’intesa di portata mondiale sul mercato delle apparecchiature di comando con isolamento in gas (« AIG1 »), di cui hanno fatto parte, in diversi periodi compresi tra il 1988 e il 2004, varie imprese europee e giapponesi del settore dell’elettrotecnica. Sia la Commissione2 sia l’autorità ceca garante della concorrenza hanno esaminato tale intesa, infliggendo ammende alle imprese coinvolte. In tale contesto, l’autorità ceca garante della concorrenza ha avviato un procedimento successivamente a quello avviato dalla Commissione e la sua decisione è stata adottata posteriormente a quella della Commissione. Tanto l’avvio dei procedimenti quanto l’irrogazione delle sanzioni hanno avuto luogo dopo il 1° maggio 2004, giorno dell’adesione della Repubblica ceca all’Unione europea.
La Commissione ha analizzato gli effetti anticoncorrenziali dell’intesa sul mercato dell’Unione e ha applicato le regole di concorrenza dell’Unione3, mentre l’autorità ceca garante della concorrenza ha esaminato gli effetti dell’intesa nel territorio ceco, applicando il diritto ceco della concorrenza, limitandosi tuttavia a sanzionare gli effetti prodotti dall’intesa nella Repubblica ceca prima del 1° maggio 2004.
La Toshiba e altre società partecipanti all’intesa hanno proposto ricorso contro la decisione dell’autorità ceca garante della concorrenza dinanzi agli organi giurisdizionali cechi, ritenendo tale decisione contraria alle norme europee sulla concorrenza (nella fattispecie, le disposizioni del regolamento n. 1/2003), secondo cui le autorità garanti della concorrenza degli Stati membri perdono automaticamente la competenza se la Commissione avvia un procedimento per violazione delle regole di concorrenza. A tale proposito, esse sottolineano che, secondo quanto accertato dalla Commissione, l’intesa è cessata l’11 maggio 2004 – vale a dire dopo l’adesione della Repubblica ceca all’Unione – e che la decisione della Commissione riguarda anche gli effetti dell’intesa nel territorio ceco. Tali società sostengono di essere state sanzionate due volte, in quanto l’autorità ceca garante della concorrenza ha inflitto loro un’ammenda per una violazione che era già stata oggetto di una decisione a livello europeo. Una prassi di questo genere violerebbe il divieto di cumulo delle sanzioni per il medesimo comportamento (principio del ne bis in idem).
Il Krajský soud v Brně (tribunale regionale di Brno, Repubblica ceca) chiede alla Corte di giustizia se il fatto che la Commissione, nella sua decisione, abbia considerato che l’intesa era cessata qualche giorno dopo l’adesione della Repubblica ceca all’Unione europea e che l’autorità ceca garante della concorrenza aveva avviato un procedimento e adottato la propria decisione dopo il 1° maggio 2004, data in cui era entrato in vigore anche il regolamento n. 1/2003, comporti la perdita completa della competenza, da parte dell’autorità ceca garante della concorrenza, a esaminare e sanzionare gli effetti prodotti prima di tale adesione.
La Corte ricorda anzitutto che il diritto dell’Unione vincola la Repubblica ceca dalla sua adesione, quindi dal 1° maggio 2004, e che si applica in tale Stato alle condizioni previste dai Trattati e dall’Atto di adesione. A tale proposito, né i Trattati né l’Atto di adesione della Repubblica ceca contengono indicazioni a favore di un’applicazione retroattiva delle regole di concorrenza dell’Unione agli effetti anticoncorrenziali prodottisi in tale paese prima della sua adesione. Orbene, in assenza di un’indicazione espressa di questo tipo, in base al principio della certezza del diritto tali effetti devono essere valutati alla luce delle norme giuridiche vigenti al momento in cui si sono prodotti, quindi alla luce del diritto ceco. La Corte conclude che le regole di concorrenza del diritto dell’Unione non sono applicabili agli effetti anticoncorrenziali di tale intesa, dato che questi ultimi si sono prodotti nel territorio della Repubblica ceca prima della sua adesione all’Unione.
Inoltre, per quanto riguarda la delimitazione delle competenze delle autorità nazionali e dell’Unione in materia di intese, la Corte rammenta che, ai sensi del regolamento n. 1/2003, la competenza ad applicare le regole di concorrenza dell’Unione è ripartita tra la Commissione e le autorità garanti della concorrenza degli Stati membri. La Corte precisa tuttavia che queste ultime perdono tale competenza se la Commissione avvia un procedimento diretto all’irrogazione di un’ammenda. Del pari, nel momento in cui la Commissione ha avviato tale procedimento, le autorità nazionali perdono anche la possibilità di applicare le disposizioni di diritto nazionale che vietano le intese.
Tuttavia, la Corte osserva che le regole di concorrenza dell’Unione non prevedono che l’avvio di un procedimento da parte della Commissione comporti la perdita, permanente e definitiva, in capo alle autorità nazionali garanti della concorrenza, della loro competenza ad applicare la normativa nazionale in materia di concorrenza. Al contrario, la competenza delle autorità nazionali è ripristinata una volta terminato il procedimento avviato dalla Commissione, poiché il diritto dell’Unione e il diritto nazionale in materia di concorrenza si applicano parallelamente. Infatti, le regole di concorrenza a livello europeo e nazionale considerano le pratiche restrittive sotto aspetti diversi e i loro ambiti di applicazione non coincidono. Ciononostante, la Corte precisa che le autorità nazionali garanti della concorrenza non possono prendere decisioni che siano in contrasto con la decisione adottata dalla Commissione.
Allo stesso modo, dopo che la Commissione ha preso la sua decisione, le autorità nazionali possono pronunciarsi sull’intesa sulla base del diritto della concorrenza dell’Unione se rispettano la decisione della Commissione. A tale proposito, la Corte sottolinea che la competenza delle autorità garanti della concorrenza degli Stati membri è ripristinata non soltanto nell’ipotesi in cui la Commissione abbia deciso di non applicare le regole di concorrenza dell’Unione a un’intesa, ma anche per tutte le decisioni immaginabili che la Commissione può adottare sulla base del regolamento n. 1/2003.
Di conseguenza, la Corte dichiara che l’autorità ceca garante della concorrenza può pronunciarsi sugli effetti anticoncorrenziali prodotti dall’intesa nella Repubblica ceca prima della sua adesione.
Da ultimo, la Corte rileva che la Commissione ha sanzionato solamente le conseguenze dell’intesa all’interno dello Spazio economico europeo4 menzionando espressamente i vecchi Stati membri dell’Unione e gli Stati parti dell’accordo SEE. La decisione della Commissione non sanziona quindi gli eventuali effetti anticoncorrenziali prodotti da tale intesa nel territorio della Repubblica ceca durante il periodo precedente la sua adesione. Tale constatazione è peraltro confermata dal fatto che, per calcolare l’importo delle ammende, la Commissione nella sua decisione non ha tenuto conto degli Stati che hanno aderito all’Unione il 1° maggio 2004.
Poiché l’autorità ceca garante della concorrenza si è limitata a sanzionare le conseguenze dell’intesa che si sono realizzate nel territorio ceco prima del 1° maggio 2004, e che queste ultime non sono state prese in considerazione dalla Commissione all’atto dell’irrogazione delle ammende, la Corte dichiara che, in assenza di un cumulo di sanzioni, il principio del ne bis in idem non è stato violato.
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1 Le AIG sono il componente principale delle sottostazioni elettriche, che servono a convertire la corrente ad alta tensione in corrente a bassa tensione, e viceversa. La loro funzione è proteggere il trasformatore dal sovraccarico e/o isolare il circuito elettrico e un trasformatore difettoso.
2 Con decisione C(2006) 6762 def., del 24 gennaio 2007, la Commissione ha inflitto ammende per un importo complessivo di 750,71 milioni di euro. Le imprese a cui sono state inflitte ammende hanno proposto dinanzi al Tribunale ricorsi diretti all’annullamento della decisione della Commissione e alla riduzione delle ammende alle quali erano state condannate; per le cause concernenti le imprese europee, v. le sentenze del Tribunale del 3 marzo 2011, Siemens AG/Commissione (T-110/07), Areva, Areva T & D Holding SA, Areva T & D SA, Areva T & D AG, Alstom/Commissione (T-117/07 e T-121/07), e le cause riunite Siemens AG Österreich, VA Tech Transmission & Distribution GmbH & Co. KEG, Siemens Transmission & Distribution Ltd., Siemens Transmission & Distribution SA, Nuova Magrini Galileo SpA/Commissione (da T-122/07 a T-124/07), v. anche il comunicato stampa n. 15/11; per le cause riguardanti le imprese giapponesi, v. le sentenze del Tribunale del 12 luglio 2011, Hitachi e a./Commissione (T-112/07), Toshiba/Commissione (T-113/07 non tradotta in italiano), Fuji Electric Co. Ltd/Commissione (T-132/07 non tradotta in italiano) e Mitsubishi Electric/Commissione (T-133/07 non tradotta in italiano), v. altresì il comunicato stampa n. 70/11.
3 La Commissione ha avviato il procedimento diretto all’irrogazione di ammende sulla base degli articoli 81 CE e 53 dell’accordo sullo Spazio economico europeo (l’accordo EEE), in combinato disposto con il regolamento n. 1/2003.