sabato 13 marzo 2010

Gli operatori che hanno impianti limitrofi a una zona inquinata possono essere considerati presunti responsabili dell'inquinamento

Gli operatori che hanno impianti limitrofi a una zona inquinata possono essere considerati presunti responsabili dell'inquinamento
Inoltre, le autorità nazionali possono subordinare il diritto degli operatori ad utilizzare i loro terreni alla condizione che essi realizzino i lavori di riparazione ambientale imposti
La direttiva sulla responsabilità ambientale prevede, per quanto concerne determinate attività elencate nell'allegato II, che l'operatore la cui attività abbia provocato un danno ambientale o una minaccia imminente di un danno siffatto è considerato responsabile. Pertanto, esso deve adottare le misure di riparazioni necessarie e assumersene l'onere finanziario.
La Rada di Augusta, situata nel territorio di Priolo Gargallo (Sicilia), è interessata da fenomeni ricorrenti di inquinamento ambientale, la cui origine risalirebbe già agli anni ‘60, quando è stato realizzato il polo petrolchimico Augusta-Priolo-Melilli. Da allora, numerose imprese operanti nel settore degli idrocarburi e della petrolchimica si sono installate e succedute in questo territorio.
Con una serie di provvedimenti, le autorità amministrative italiane hanno imposto alle imprese stabilite lungo la Rada di Augusta diversi obblighi di riparazione dell'inquinamento accertato nel territorio di Priolo, dichiarato «sito di interesse nazionale a fini di bonifica».
Le imprese Raffinerie Mediterranee (ERG) SpA, Polimeri Europa SpA, Syndial SpA nonché ENI SpA hanno proposto alcuni ricorsi avverso questi provvedimenti amministrativi dinanzi ai giudici italiani. Il Tribunale amministrativo regionale della Sicilia, che deve pronunciarsi su queste cause, ha rinviato alla Corte di giustizia numerose questioni vertenti sull'applicazione del principio «chi inquina paga».
Causa C-378/08
Il giudice italiano desidera sapere, in particolare, se il principio «chi inquina paga» osti a una normativa nazionale che consente all'autorità competente di imporre ad alcuni operatori, misure di riparazione dei danni ambientali, a causa della vicinanza dei loro impianti ad una zona inquinata, senza avere preventivamente indagato sugli eventi all'origine dell'inquinamento, né avere accertato l'esistenza di un illecito in capo agli operatori e nemmeno un nesso di causalità tra questi ultimi e l'inquinamento rilevato.
Nella sentenza odierna, la Corte giunge alla conclusione che la direttiva sulla responsabilità ambientale non osta a una normativa nazionale che consente all'autorità competente di presumere l'esistenza di un nesso di causalità tra determinati operatori e un inquinamento accertato, e ciò in base alla vicinanza dei loro impianti alla zona inquinata. Tuttavia, conformemente al principio «chi inquina paga», per poter presumere un siffatto nesso di causalità detta autorità deve disporre di indizi plausibili in grado di dare fondamento alla sua presunzione, quali la vicinanza dell'impianto dell'operatore all'inquinamento accertato e la corrispondenza tra le sostanze inquinanti ritrovate e i componenti impiegati da detto operatore nell'esercizio della sua attività.
Inoltre, l'autorità competente non è tenuta a dimostrare l'esistenza di un illecito in capo agli operatori le cui attività siano considerate all'origine del danno ambientale. Viceversa, spetta a questa autorità ricercare preventivamente l'origine dell'accertato inquinamento, attività riguardo alla quale detta autorità dispone di un potere discrezionale in merito alle procedure e ai mezzi da impiegare, nonché alla durata di una ricerca siffatta.
Cause riunite C-379/08 e C-380/08
Il giudice italiano chiede se la direttiva sulla responsabilità ambientale autorizzi una modifica sostanziale delle misure di riparazione del danno ambientale già eseguite o la cui esecuzione sia già stata avviata. Inoltre, lo stesso giudice desidera sapere se la direttiva osti a una normativa nazionale, che subordina il diritto degli operatori all'utilizzo dei loro terreni alla condizione che essi realizzino i lavori imposti.
Nella sentenza odierna, la Corte conclude nel senso che l'autorità competente ha il potere di modificare sostanzialmente le misure di riparazione del danno ambientale decise in esito a un procedimento in contraddittorio, condotto in collaborazione con gli operatori interessati, che siano già state poste in esecuzione o la cui esecuzione sia già stata avviata. Tuttavia, al fine di adottare una siffatta decisione, detta autorità:
• è obbligata ad ascoltare gli operatori (salvo quando l'urgenza della situazione ambientale imponga un'azione immediata da parte dell'autorità competente);
• è tenuta parimenti ad invitare, in particolare, le persone sui cui terreni queste misure devono essere poste in esecuzione a presentare le loro osservazioni, di cui essa deve tener conto, e
• deve indicare, nella sua decisione, le ragioni che motivano la sua scelta nonché, eventualmente, quelle in grado di giustificare il fatto che non fosse necessario o possibile effettuare un esame circostanziato a causa, ad esempio, dell'urgenza della situazione ambientale.
Parimenti, secondo il giudizio della Corte, la direttiva sulla responsabilità ambientale non osta a una normativa nazionale, la quale consenta all'autorità competente di subordinare l'esercizio del diritto degli operatori all'utilizzo dei loro terreni alla condizione che essi realizzino i lavori imposti, e ciò persino quando detti terreni non siano interessati da tali misure perché sono già stati oggetto di precedenti misure di bonifica o non sono mai stati inquinati. Tuttavia, una misura siffatta dev’essere giustificata dallo scopo di impedire il peggioramento della situazione ambientale oppure, in applicazione del principio di precauzione, dallo scopo di prevenire il verificarsi o il ripetersi di altri danni ambientali nei terreni degli operatori, limitrofi all'intero litorale oggetto di dette misure di riparazione.